Paolo Beltramo: “Valentino Rossi fece un errore con Marquez prima di Sepang. Fu segno di debolezza”

Sono passati dieci anni da quella domenica di ottobre 2015 che ha cambiato per sempre la storia della MotoGP. Sepang, Malesia. Valentino Rossi e Marc Marquez si sfiorano, si toccano, e il mondo delle due ruote si spacca in due. C’è chi parla di “calcio”, chi di semplice difesa della traiettoria. C’è chi vede un complotto, chi una punizione divina. Quel giorno non finì solo una gara, ma un’epoca. Da allora, nessuno è più riuscito a guardare l’altro con gli stessi occhi. A dieci anni di distanza, abbiamo chiesto a Paolo Beltramo, decano del giornalismo motociclistico, di ripercorrere quell’episodio e di raccontarci come è cambiato lo sport, i suoi protagonisti e il modo in cui viviamo le corse. Forse è arrivato il momento di chiudere il cerchio. Di ricordare, ma anche di perdonare. Perché la storia della MotoGP è troppo bella per restare prigioniera di un duello eterno.
Paolo, dieci anni fa eri già un osservatore attento e disincantato del paddock. Come hai vissuto l’affaire Sepang 2015?
Quell’anno, il 2015, ho visto qualcosa di nuovo. Non che certe cose non fossero mai successe prima, ma prima non c’erano tutte le telecamere di oggi e che già, ovviamente, c'erano nel 2015: ormai si vede tutto, ogni gesto, ogni sguardo. Era un periodo di forte antagonismo tra Marquez e Valentino. Marquez, però, non si stava giocando il Mondiale — quello era tra Rossi e Lorenzo — e Vale era in testa. La stagione era iniziata con qualche errore di Marc e con delle vittorie pesanti di Rossi che avevano anche coinvolto lo spagnolo come il contatto in Argentina e quello ad Assen. Io sono uno dei pochi a pensare che Rossi, in quel finale di stagione, abbia corso un po’ contro natura. A Brno perse punti con Pedrosa, in Australia arrivò quarto, davanti a lui anche Iannone. Forse cercava di gestire un vantaggio che sembrava rassicurante. Poi arrivò quella notte in Australia, in cui iniziò a pensare che Marquez lo stesse rallentando per favorire Lorenzo. Da lì nacque tutto.

Ti riferisci a quella conferenza stampa prima di Sepang?
Esatto. Rossi parlò pubblicamente di Marquez, dicendo che stava giocando sporco. E secondo me lì fece un errore. Pensava di essere duro, ma fu un segnale di debolezza. Quelle cose o le risolvi a porte chiuse, oppure vai fino in fondo con i fatti, non con le parole. Quella conferenza stampa era un modo per dire: “Non so più come gestire la situazione”.
E poi in Malesia succede quello che tutti ricordano.
Lì Marquez lo rallentava davvero, si vedeva chiaramente. Lo superava, lo rallentava, lo ripassava. Lasciando scappare Lorenzo verso la vittoria. Una vittoria che avrebbe consentito allo spagnolo di ridurre il gap e giocarsi il titolo a Valencia. Io non credo che gli abbia dato un calcio, ma il contatto c’è stato e Marquez è caduto. Rossi è stato punito e costretto a partire ultimo a Valencia. Il Mondiale lo vinse Lorenzo, e il decimo titolo di Rossi svanì per sempre. Il problema vero, però, fu che Marquez non stava correndo per sé. Ed è questa la cosa che nessuno riesce davvero a perdonargli. Se lo fai per vincere tu, lo capisco. Ma se lo fai per far vincere un altro, è brutto. Anzi, se lo fai per far perdere un altro, è orribile. E lì lui era un ragazzo di ventidue anni, cresciuto come “il predestinato”, sempre un po’ protetto, anche mediaticamente. Gli hanno lasciato passare troppo, fin da piccolo. E si è arrivati a una reazione smodata alle parole di Rossi.
Dici che Marquez ha pagato, nel tempo, quello che è successo?
Sì. Lo penso davvero. Marquez oggi non è più quel ragazzo impulsivo. Oggi non farebbe una cosa del genere. È cresciuto, è diventato un uomo. Ha pagato con gli infortuni, le operazioni, le sofferenze. Quella caduta di Jerez nel 2020 e il calvario che ne è seguito sono stati, in qualche modo, la sua pena. Ora è un campione rispettabile, maturo. Si è rimesso in gioco, ha lasciato la Honda, ha corso gratis con Gresini, ha creduto in se stesso ed è tornato campione del mondo. Se esistesse un “giudice divino dello sport”, direi che la bilancia si è pareggiata. Marquez ha espiato i suoi peccati.
È vero che, dieci anni dopo, la ferita è ancora aperta.
Sì, e questo è un peccato. Perché alla fine sono stati due grandi campioni. Uno lo è stato, l’altro lo è ancora. Ma quell’astio tra i due clan — Rossi e Marquez, Italia e Spagna — è rimasto incancrenito. Lo vedi dai fischi del Mugello o dalle reazioni sui social. È diventato tifo calcistico, tossico. E non è bello per il Motorsport. A me dispiace perché le antipatie fanno parte del gioco, ma qui si è andati oltre. Era un duello tra due che volevano la stessa cosa: la vittoria, “la stessa ragazza”, come dico io. Ma non doveva diventare odio.
Pensi che possano mai chiarirsi?
Io credo di sì, o almeno me lo auguro. Mi piacerebbe che un giorno facessero una conferenza stampa insieme e si dicessero: “Ok, quell’anno sei stato un testa di…, ma anche io un… e adesso basta. Andiamo avanti, quel che fatto è fatto”. Due piloti che hanno amato la stessa cosa e dato tutto per vincere. Perché alla fine, con il tempo, tutti si addolciscono. Lo vedi nel tennis: Federer e Nadal, grandissimi rivali, oggi sono amici. Anche Capirossi e Harada, dopo quello che è successo, oggi si salutano, a volte escono insieme. Il tempo cambia le persone. Rossi ha invitato tutti i suoi avversari al Ranch. Se Marc facesse il primo passo, sono convinto che Rossi apprezzerebbe.

Oggi Marquez è tornato protagonista. Come lo giudichi?
Come sportivo, non gli si può dire nulla. Ha dominato. Ha dimostrato di avere ancora fame e talento. Poi può non piacere come uomo, ma in pista è un fuoriclasse. E anche con Bagnaia, che è un gran campione (nonostante i risultati di questa stagione), ha mantenuto sempre rispetto. Molti tifosi sono stati peggiori dei loro beniamini.
Per Bagnaia stagione fallimentare…
È vero, Bagnaia ha avuto problemi tecnici, ma non c’è nessun complotto. Nelle corse succede. Quella moto, per stile di guida o feeling, può non adattarsi. Marquez, invece, ha la capacità di guidare “sopra i problemi”. Mi ricorda un po' Rainey e Cadalora. Ogni tanto Cadalora vinceva anche ma doveva essere al 100% altrimenti non ce n'era.
Cosa manca oggi, secondo te, nel modo di vivere il motociclismo?
Manca serenità. Oggi tutto è esasperato, commentato, amplificato. I social hanno trasformato il tifo in militanza. Prima uno poteva preferire un pilota, ma non odiava l’altro. Adesso si fischia, si insulta. È sbagliato. Le moto non sono una fede religiosa. Sono passione, emozione, competizione. Rossi e Marquez hanno diviso il pubblico come mai nessuno prima. Ma dopo dieci anni, è tempo di mettere via quella storia. Perché la MotoGP è andata avanti, e continua a regalarci gare, piloti, emozioni. È giusto ricordare Sepang, ma anche lasciarla andare.