
Com'è ridotto il calcio italiano è sotto gli occhi di tutti. Che l'Italia ce la faccia o meno a qualificarsi ai Mondiali 2026, andrebbe auspicata una rivoluzione radicale per scuotere dalle fondamenta il potere cristallizzato del mondo del pallone. E la figura di Paolo Maldini (non da solo ma con accanto persone della stessa risma e un sostegno pieno, fondato su obiettivi e sentire condivisi) potrebbe rappresentare un reale punto di partenza per uscire dalle sabbie mobili in cui siamo finiti. Non è solo questione di volti nuovi ma di credibilità, volontà reale (e capacità) di mettersi alla testa di un progetto che non può prescindere dalla necessità dell'intero sistema di dotarsi di strutture, mezzi, canali, finestre di dialogo, scouting e addetti ai lavori altamente professionali. Tutto deve essere finalizzato alla costruzione di un piano duraturo, solido e che parli la stessa lingua dalla base fino al vertice. Più facile a dirsi che a farsi, perché è come trovarsi ai piedi dell'Everest da scalare (quasi) a mani nude. Ma da qualche parte, prima o poi, bisogna ricominciare e scuotersi. Pensare che la partecipazione dell'Italia alla Coppa del Mondo possa essere la medicina è folle: se è per questo, non è bastato vincere gli Europei nel 2021 per fare meglio. Anzi, è andata anche peggio.
Perché proprio Maldini? Anzitutto, è giovane, che non vuol dire solo avere gli anni giusti ed è un fattore tutt'altro che trascurabile in chiave futura. Ha attraversato tutte le fasi della carriera di un calciatore che inizia dal basso e, piano piano, grazie alle sue qualità, riesce a calcare anche palcoscenici internazionali restando a un livello di competitività molto alto. E non c'è certo bisogno di spiegare cosa abbia significato avere un giocatore come l'ex difensore e capitano della Nazionale tanto al Milan quanto in Azzurro. Parla la (sua) storia. In un calcio che ha ammainato le bandiere troppo in fretta e, oggi, quasi le ritiene solo un orpello da tirare fuori per fare "comparenza" al momento buono, anche questo sarebbe un segnale chiaro.
Maldini è la voce di "dentro" che conosce alla perfezione tutti i meccanismi di un apparato complesso e appartiene alla generazione che non è stata grande solo perché con le scarpette ai piedi sapeva incantare. No, è nel filone di coloro che hanno studiato perché da grandi avevano in mente e in animo di fare altro, evolversi. Di quelli che avevano un'altra testa. Rientra nel solco di coloro che non hanno bisogno di apparire per essere qualcuno, che non barattano i valori né la coerenza né il proprio nome per tornaconto personale, che non hanno paura di mettersi in gioco assumendosene la responsabilità nel bene e nel male e hanno abbastanza umiltà perché sanno che non si smette mai di imparare. L'esperienza da manager alla guida del Milan ne è un po' l'esempio, a livello gestionale e di risultati.

Maldini, certo. E poi? Toccherebbe a lui scegliere le persone e le figure più adatte, sempre che possa poggiare su una base di consenso solida, pienamente convinta dell'impresa in cui ci si va a imbarcare, pronta a rimboccarsi le maniche, che non si scaldi solo quando c'è da litigare e fare la questua sui diritti tv. Chissà, magari con Roberto Baggio che una mano l'aveva pure data, salvo fare un passo indietro quando ha capito che proprio non gli andava né gli interessava occupare certi ruoli a mo' di soprammobile.
Se non ora quando? È arrivato il momento di ripensare un calcio che in Serie A è scivolato progressivamente nelle mani di proprietà straniere (9 su 20, e le milanesi sono l'esempio tangibile) con l'opzione dei fondi d'investimento che non hanno un volto, un nome e una riconoscibilità chiari e hanno approfittato della crisi sistemica per fare breccia in un contesto di difficoltà generale, appetibile (anche) a livello speculativo. Follow the money, segui i soldi e scopri che ti conducono, scatola dopo scatola, a improbabili paradisi fiscali e sedi localizzate da un capo all'altro del mondo.
Il problema non era Luciano Spalletti né lo è ora Gennaro Gattuso (tanto per restare alle esperienze più recenti dei ct), chiunque si è trovato o si troverà al loro posto andrà a sbattere con la dura realtà di una disciplina che non sforna più talenti, se non in maniera occasionale. E quando ha la fortuna di averne non sa come accompagnarne la crescita. Gabriele Gravina è stato rieletto a febbraio scorso con il 98.7% dei voti alla Presidenza della Federcalcio ed è stata un'occasione persa per guardare finalmente al futuro. Perché la sua figura sia messa in discussione servirebbe anzitutto un atto di coraggio da parte di quegli stessi dirigenti che gli hanno dato fiducia nonostante le condizioni del movimento che arranca al cospetto di discipline che non muovono gli stessi soldi del football ma sono in grado di essere competitive "con poco" a livello mondiale.
Non occorre andare troppo in là o troppo indietro nel tempo, basta guardare gli esempi della pallavolo (maschile e femminile) oppure del tennis che ha trovato in Jannik Sinner il campione (e la figura) intorno alla quale costruire una narrazione positiva e i successi. Cos'è oggi il calcio italiano se non un'accozzaglia informe di interessi che non ha più appeal? Non è mai troppo tardi per cambiare e/o fare qualcosa d'importante.