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Gianluca Savoldi: “Essere figlio d’arte non è stato facile. Da bambino mi urlavano ‘raccomandato'”

Gianluca Savoldi a Fanpage.it ha raccontato una parte della sua carriera da calciatore e il suo nuovo percorso da allenatore, analizzando anche il livello del dibattito calcistico in Italia con l’enorme differenza tra calcio ‘giocato’ e ‘parlato’.
A cura di Vito Lamorte
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Gianluca Savoldi a tutto campo, dal campo alla panchina. L'ex attaccante, figlio del celebre Beppe Savoldi, è stato protagonista per diversi anni del nostro calcio tra Serie A, B e C e dopo il ritiro ha intrapreso la carriera da allenatore, lavorando nelle giovanili di diverse società e ottenendo grandi risultati con il Renate, portandolo dalla Primavera 4 alla Primavera 2 e vincendo il Trofeo Dante Berretti nel 2023. Il suo approccio al lavoro e la capacità di valorizzare i giovani talenti sono doti riconosciute a livello nazionale e ora il figlio d'arte è pronto al grande salto.

Savoldi è un attento osservatore del calcio moderno, con una forte passione per la formazione giovanile e un'attenzione particolare agli aspetti umani e didattici: a Fanpage.it ha raccontato una parte della sua carriera da calciatore e il suo nuovo percorso da allenatore, con aneddoti e considerazioni, analizzando anche il modo in cui il calcio viene analizzato a livello mediatico in Italia.

Cosa fa oggi Gianluca Savoldi dopo aver fatto un bel percorso con la Primavera del Renate?
"Ho deciso di interrompere, di non rinnovare il mio contratto lì, anche se sono stato benissimo, ho fatto quattro anni meravigliosi e potevamo continuare: avevo la stima del presidente e del direttore generale, però dopo quattro anni ho sentito un po' come se il mio compito lì fosse finito, nel senso che ho preso quella squadra in Primavera 4 e l’ho portata in Primavera 2".

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Avete vinto anche il trofeo Beretti o ricordo male?
"Sì, corretto. Oltre alla promozione abbiamo fatto lo spareggio col Palermo a Reggio Emilia in campo neutro. Diciamo che questi quattro anni abbiamo fatto benissimo e ho pensato che che ormai avrei voluto fare un'esperienza diversa. Loro mi hanno chiesto di rimanere, perché comunque in futuro ci sarebbe stato sicuramente posto per me in prima squadra ma non mi sembrava professionale e corretto partire un nuovo anno con la Primavera se la testa è già proiettata in avanti. Ho sentito proprio che alla fine di quest'anno il mio percorso, seppur meraviglioso e assolutamente indimenticabile, era terminato".

Ha avuto qualche proposta?
"Ero già stato contattato da alcune società di Serie D, ma poi è saltato tutto lì in piena estate e questa cosa diciamo mi ha impedito di prendere nuovi accordi con altre società perché tutti avevano strutturato i loro staff. A quel punto o accettavo qualche proposta dall’Eccellenza o accettavo la possibilità semplicemente di mettermi in pausa. L’idea non mi dispiaceva, di fermarmi un attimo, ma è ovvio che non sono un ipocrita e avrei preferito essere sul campo a lavorare, alzarmi la mattina e preparare l’allenamento del pomeriggio. Finché non ti fermi e non ti rimisuri con le possibilità che il mercato e il calcio ti offre, secondo me non riesci bene poi a misurarti. Ogni tanto fermarsi fa bene perché a volte una pausa ti dà la possibilità di vedere le cose da fuori in modo più freddo, fare riflessioni e distaccarti un po' dal lavoro quotidiano, e sarà un'occasione per andare a vedere anche qualche mister ma avrei preferito certamente essere sul campo”.

Dato che ha avuto a che fare con i ragazzi sul campo, può dirci se c’è davvero così tanta differenza tra i giovani di ieri e quelli di oggi?
"È chiaro che i ragazzi di oggi sono diversi da noi. È un mondo diverso. I ragazzi di oggi sono più fragili perché crescono in un ambiente che li ha protetti troppo dalle difficoltà. Non è colpa loro, ma di come li abbiamo educati: spesso evitano le sfide e cercano scuse invece di confrontarsi. Io ho iniziato nel 2017 con gli Under 19 e ho finito con l'anno scorso con una Primavera e ho sempre visto ragazzi di questa età: ti dico che è un mondo meraviglioso, i giovani sono stupendi".

C’è sempre un enorme dibattito sul lavoro che si fa nelle giovanili: in base a quello che conosce e che ha potuto vedere, davvero si dà così tanto peso alla tattica e non alla tecnica come si sente dire ormai da anni?
"Allora, intanto bisogna distinguere tra tattica collettiva e tattica individuale. Perché, in realtà, la tattica è qualcosa che tu decidi di fare in diretta. Quindi, secondo me, confondiamo troppo la tattica con la strategia e non sono ‘diktat’ da seguire, un piano partita o comunque un'organizzazione collettiva quello è fare strategia. Siccome nel calcio per tattica si intende esercitazioni che abbiano l'obiettivo di migliorare la loro organizzazione diciamo collettiva, a me piace più chiamarla strategia. Comunque diciamo che si punta tanto nell'allenamento se il focus è effettivamente e esageratamente sull'organizzazione collettiva. Ma vogliamo spiegare questo cane che si morde la coda?"

Prego.
"Perché noi allenatori siamo giudicati dall'esterno se si vede la mano dell'allenatore, o viceversa. È difficile valutare davvero un allenatore: pochi seguono a lungo giocatori e allenamenti per giudicare miglioramenti reali. Per chi osserva dall’esterno, l’unico criterio resta l’organizzazione visibile della squadra in partita, spingendo i tecnici a puntare soprattutto su quella per essere riconosciuti".

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Ma questo vale per tutti i ragazzi o si potrebbe fare un discorso diverso per età?
"Ecco, esatto. Finché si lavora sulla fase collettiva dai 15-16 anni in su va bene: i ragazzi devono imparare a prendere decisioni condivise in partita. Il problema è farlo troppo presto, trascurando crescita tecnica e tattica individuale. Spesso si dedica poco tempo a sviluppare i giocatori, perché gli allenatori, sotto pressione, preferiscono puntare sui risultati visibili piuttosto che sulla formazione a lungo termine. Io sono abbastanza certo che in tanti del mio percorso a Renate verrà ricordato più perché ho vinto due campionati di fila e non perché siamo riusciti a portare sei giocatori in prima squadra più altri due che sono andati all’Atalanta e alla Cremonese in Primavera 1. In un mondo di indizi superficiali è ovvio che l'allenatore è costretto a puntare tutto su queste cose".

Poi bisogna sempre fare i conti con chi dice di voler puntare sui giovani e al primo errore li mette fuori..
"Esatto. Troppo spesso ci dimentichiamo che il problema più grosso è un altro. Tanti giovani arrivano comunque lì validi ma se li facciamo giocare e i primi  due controlli sono sbagliati subito si rumoreggia e gli stessi che invocavano Tizio e Caio perché li avevano sentiti nominare come ‘forti’ non li vogliono più vedere in campo. Lì la società con le spalle larghe se ne fotte e continua a farlo giocare mentre la società piccola che non ha la tempra non li fa più giocare".

Non si potrebbe ripartire da una differenza tra allenatori e formatori che potrebbe essere fondamentale nell'approccio al calcio che si può dare a un ragazzino?
"Più che definire un formatore e un allenatore secondo me è importante che venga destinato ai piccolini qualcuno che abbia quell'attitudine lì. Però posso dirti che quello esperto, che magari ti può insegnare davvero, non ci viene e quelli bravi se li prendono le società più blasonate e ricche. Quello bravo dopo dieci anni che allena i piccolini a cento euro al mese non lo vuole più fare e così ci ritroviamo sui campi tirocinanti di Scienze Motorie che lo fanno anche gratis perché a loro serve per laurearsi ma in molti casi non hanno nessuna competenza specifica del calcio".

Essere figlio di Giuseppe Savoldi le ha tolto più castagne dal fuoco o le ha creato più ‘problemi’?
"Sicuramente non perché è chiaro che tutti fanno sempre il paragone e si aspettano grandi cose. Io ho giocato in Serie A, in Serie B e Serie C, ho fatto una una bella una grande gavetta e ho partecipato anche a promozioni importanti con campionati in doppia cifra ma me la sono sudata. Ogni volta mi hanno detto ‘sì vabbè ma il padre erano un’altra cosa’ ma magari se non avessi avuto quel cognome accostato ad attaccanti dei miei anni che navigavano nelle mie stesse categorie. Da piccolino i genitori della squadra avversaria gridavano ad un bambino pur di intimidirlo le cose come ‘raccomandato’ e altro. Lui non è mai venuto a vedermi e quindi facevano la voce grossa con un ragazzino indifeso che aveva la colpa solo di chiamarsi in quel modo ma l’orgoglio e la fierezza di essere figlio di un campione c’è sempre stata".

Da calciatore ha girato tanto. Dopo le prime esperienze in C arrivò il salto in B con il Cosenza: 10 gol e un campionato da protagonista. Che ricordi ha di quella stagione?
"Io sono cresciuto nell’Atalanta e venivo dalla banda Prandelli, con due Scudetti e una squadra formata da Morfeo, Tacchinardi, Viali, Pavan, Foglio, Pisani… avevano una squadra fortissima. Venivo da quella grande covata ma avevano puntato su altri giocatori per la prima squadra e iniziai a fare gavetta in Serie C. Mi trovai a Pisa dove ero ovviamente felicissimo, una piazza stupenda che è stata fondamentale e mi ha lanciato. Dopo sono arrivato Cosenza, mi ha portato in Serie B e sicuramente quello è stato un altro salto importante".

Gianluca Savoldi è cresciuto nelle giovanili dell'Atalanta, fortemente voluto da Mino Favini: chiedo a lei che lo ha conosciuto di raccontarci chi era il signor Favini e cosa rappresenta per il calcio bergamasco e italiano?
"Un approccio che manca tanto dove si dà molta attenzione all'aspetto umano, al carattere non semplicemente del giocatore ma del del del ragazzo: lui aveva delle chiavi di lettura e riusciva a stuzzicarti a volte rimproverandoti, a volte invece gratificandoti o dando un incoraggiamento. Era innanzitutto questo, un maestro di vita e ci dava degli insegnamenti ben precisi sia in campo che fuori: non gli piaceva quando protestavamo con gli arbitri o quando non ci pulivamo le scarpe, le divise sempre in ordine e il modo di stare in giro. Tante piccole cose che poi io cerco di portare ai miei ragazzi, che a volte mi guardano stralunato ma lui ci ha sempre detto che è la testa che fa il giocatore. Aveva grande fiuto e capacità di vedere prima cosa poteva dare uno rispetto ad un altro, nel sapere come allenare, nello scegliere le persone giuste, gli allenatori giusti per crescere i bambini e per me rimane un riferimento".

Poi arrivò la Reggina e la promozione in Serie A con 15 reti in 37 gare…
"Ci sono stati tanti momenti belli ma è innegabile che il salto dalla B alla A è il momento più bello. Io ero già del Chievo prima di andare a Reggio ma poi la trattativa andava per le lunghe è ho intuito che il Cosenza preferiva fare l’operazione con la Reggina. Sono andato in Serie A con un anno di ritardo e me la rischiai anche perché era un torneo durissimo con Cagliari, Sampdoria, Napoli…".

Nel dibattito calcistico ci si divide tra ‘giochisti’ e ‘risultatisti’, si parla di costruzione dal basso come se fosse il demonio quando è una cosa che è sempre esistita… si può dire che in Italia esiste un calcio ‘parlato’ e uno ‘giocato’ che viaggiano su due rette parallele che non si incontrano mai?
"In Italia il dibattito calcistico punta su polemiche e slogan perché fanno audience, mentre le analisi tecniche approfondite non trovano spazio: ai giornali e alle TV rendono di più le discussioni superficiali. Anche analisti bravi finiscono per farsi trascinare in queste dinamiche. Io ho scelto di stare sul campo piuttosto che nella narrazione, preferendo il calcio giocato a quello parlato".

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