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Simone Alessio: “Sono un capitano di Nazionale un po’ stro*zo e il primo hater di me stesso”

Simone Alessio ha riscritto la storia del taekwondo italiano a soli 25 anni: primo oro iridato in assoluto, unico azzurro a conquistare tre medaglie mondiali, puntando diritto a Los Angeles 2028: “Dove sarò soddisfatto unicamente se conquisterò l’oro”
A cura di Alessio Pediglieri
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Simone Alessio a soli 25 anni ha già riscritto la storia del taekwondo italiano: primo oro Mondiale, unico azzurro a conquistare tre medaglie iridate. Una carriera precoce e vincente il cui ricordo indelebile resta quel fantastico 2019: "Ero solo un ragazzino che si prendeva il mondo, non capii davvero cosa accadde", racconta in esclusiva a Fanpage.it. "Però quel gusto nel divertirmi un po' l'ho perso… mi manca, lo dovrei ritrovare".

Il prossimo obiettivo è Los Angeles, i Giochi americani, dove Simone Alessio vuole arrivare da protagonista: "Mi accontenterò solamente con l'oro", sottolinea evidenziando quell'arroganza sportiva un po' croce e un po' delizia che da sempre lo ha accompagnato in carriera: "Mi ha permesso di fare tante cose positive. Tra cui non badare alle critiche. Io sono il primo hater di me stesso, pretendo moltissimo". E che vuole trasmettere anche alle generazioni future: "Da capitano della Nazionale sono un po' stronzo: il livello in Italia è cresciuto ma ci sono i presupposti per fare ancora meglio e quindi ai giovani ripeto che non ci si deve mai accontentare". Sulla scia di un motto che si è tatuato sul corpo: "Mors tua, vita mea. Sì, è legato a mia mamma. Da piccolo quando andavo a combattere mi diceva sempre prima: A vincere devi essere solo tu, ricordatelo". 

Simone Alessio, l'ultimo argento mondiale ti trova davvero soddisfatto?
No, soddisfatto no. L'ho scritto anche apertamente sul mio profilo Instagram perché la soddisfazione per me riguarda tante altre cose, non c'è solo il mondiale, non perché è argento e non oro, ma perché la mia prestazione non è stata a livello delle mie aspettative. Sono sicuramente contento che una giornata così quasi negativa si sia conclusa in medaglia, perché le mie prestazioni non sono state sufficienti.

Cosa non ha funzionato?
Non lo so, non mi sentivo in difficoltà. Alla fine va bene quest'argento perché per come stavo combattendo, male, potevo fermarmi ben prima. La prestazione in generale non mi è piaciuta, sono arrivato in finale in maniera non positiva: mentalmente io l'avevo preparata, ma fisicamente non ho capito perché tutto non funzionasse come doveva.

Altri avrebbero mollato, tu comunque, hai confermato di non cedere fino alla fine…
Penso che sia stato un insieme di voglia di fare e la convinzione di poterci ci riuscire, però il punto che con la paura di cadere di nuovo negli stessi errori ne ho fatti altri. Più una questione mentale. Capivo che non stava funzionando e ho iniziato a difendere e difendendo mi ritrovo sempre insoddisfatto di come combatto.

Però prima, in America al Gran Prix è stato diverso: hai combattuto bene e vinto, perché?
Sì quando ho vinto il Grand Prix, ho combattuto benissimo. Ti spiego: potevo anche perdere e ci stava, ma ho combattuto bene, mi sono divertito, ho creato tante occasioni e infatti non ho perso neanche un round, perché? Perché stavo proprio mentalmente libero, sciolto nella testa. Mi ripetevo: "È tutta esperienza, posso anche perdere, ma combatto bene".

Dunque, le pressioni e le aspettative hanno giocato moltissimo ai Mondiali?
Avevo tanta voglia di fare, volevo la medaglia ad ogni costo.

Anche perché saresti stato l'unico taekwondoka nella storia italiana a conquistare 3 ori mondiali. Tutto ciò ti ha condizionato?
Ti posso dire che mi sono condizionato da solo perché il primo a volerlo ero io e quindi in testa mia dicevo che ce la potevo fare. Lo volevo e mi sono trovato in difficoltà anche se questo pensiero comunque mi ha fatto stare tanto attento durante gli incontri. Ma non ho combattuto al mio meglio: quando il punto non esce, l'azione la soffri, l'avversario diventa tosto e senti le difficoltà, ti senti un po' vulnerabile. Si creano dei meccanismi in cui vai a pensare solo al tabellone e non più al combattimento.

Anche a Tokyo accadde qualcosa del genere: arrivasti da campione del mondo poi andò tutto male. Il punto di vista mentale è dunque il tuo vero tallone d'Achille?
Sì, anche in quel frangente arrivavo con tante aspettative, arrivavo con tanta voglia di voler vincere perché volevo dimostrare che a 20 anni potevo essere un dio sceso in terra. Una arroganza che mi ha fatto fare in altre occasioni tante cose positive, ma in quel caso non funzionò per nulla.

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Le critiche, in generale, di feriscono?
Direi di no, anche perché il primo hater di me stesso, praticamente, sono io. Perché anche quando faccio una cosa giusta, vado a trovare le cose negative, quindi sono autocritico al massimo, le critiche dall'esterno non mi toccano minimamente, sono sincero. Può essere chiunque, anche i miei genitori, il mio maestro… quando mi riprendono io penso sempre: "Sì, lo so già, mi sono autocritico da solo". Però questa arroganza positiva mi ha aiutato parecchio in carriera.

Quando, ad esempio?
In alcuni aspetti mi ha tanto aiutato soprattutto quando qualcuno pensava che io non ce la potessi fare in alcune occasioni, come al Mondiale del 2023. Nonostante avessi vinto tutti i primi 6 mesi del 2023 con prestazioni che erano state  più che buone, attorno sentivo un po' di diffidenza sul sul mio possibile obiettivo e lì l'arroganza si è fatta un po' sentire, urlando a tutti con la medaglia al collo: "No, avete capito? Mo' vi ho fatto vedere". E' il mio miglior pregio, ma anche un mio difetto.

Il più bel ricordo è legato ad un altro mondiale, del 2019, corretto?
Sì, devo dire il mondiale del 2019 perché è stato davvero l'inizio, ero proprio un ragazzino che si prendeva il mondo senza neanche sapere quello che stesse facendo. Ora, ripensandoci posso tranquillamente dire la verità: non capivo cosa avevo realizzato. Mi ricordo perfettamente però che mi sono divertito tantissimo, guardavo l'avversario di turno e dicevo: "No, non passi, tu passo io". Questa cosa un po' mi è mancata ultimamente, riuscire sempre e comunque a divertirmi, forse dovrei andarla a riprendere. Poi anche il 2022, i primi mesi del 2022 in cui ho dominato ovunque, un bel ricordo.

E le Olimpiadi di Parigi come le giudichi: positive o qualche rammarico?
Il mio bilancio è molto positivo, perché ci sono arrivato bene. Io sono dell'idea che quando qualcosa la fa vai bene, comunque rimani soddisfatto del percorso. E a Parigi sono arrivato quasi perfetto su tutti gli aspetti, mentale, fisico, nutrizionale, di preparazione, del tiro. Tutti quei fattori che negli anni io non avevo al massimo. Quindi entrando sul quadrato in maniera quasi perfetta ero soddisfatto già di come l'avevo preparata.

Però poi non è arrivato l'oro, cos'è successo?
Il solito problema che ogni tanto mi capita: ho perso perché io ho fatto un errore come al solito sull'attenzione. Comunque è arrivata la medaglia ed è sempre una medaglia, un qualcosa che mi mancava in carriera e quindi sì: ha un pensiero solo positivo quando ripenso a Parigi.

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Adesso è iniziato anche il quadriennio verso Los Angeles, ti basterebbe ripetere Parigi?
No, assolutamente no, anzi. Sarò soddisfatto solo nel momento in cui riuscissi a prendere loro, questo è chiaro. Però so anche che è tanto difficile, crescendo ho maturato anche questo aspetto. Prima mi ripetevo sempre e solo: "No, devo essere io il numero uno, non c'è nessun altro oltre a me". L'esperienza mi ha portato anche a stare un po' di più con i piedi per terra, ora so che c'è un percorso lungo, intenso, per per arrivare a poter vincere un oro olimpico. Ma la voglia e la determinazione sono le stesse di sempre.

Tu hai già riscritto la storia del Taekwondo italiano te lo saresti aspettato sinceramente?
Assolutamente no. L'Italia aveva aveva avuto un periodo d'oro con Carlo [Molfetta, a inizi 2000, ndr]. Poi nel 2008 Mauro [Sarmiento, argento olimpico a Pechino 2008, prima medaglia italiana nel taekwondo, ndr] aveva preso medaglia e quindi c'era un periodo in cui avevamo comunque fatto molto molto bene. Quando mi sono presentato in nazionale nel 2015 sapevo perfettamente che c'era questa storia prima di me. Mi ricordo che si entrava in palestra e c'era la medaglia di Carlo, questa gigantografia di Carlo appena poco dopo l'entrata. Quindi tu guardavi questa immagine e a soli 15 anni pensavo fosse ancora un po' troppo presto pensare di poter fare tutte quelle cose. Che poi ho fatto anch'io.

Ma la presa reale di coscienza di essere entrato nella storia dello sport?
L'ho presa pian piano. Devo dire che dopo il primo mondiale e dopo la partecipazione ai Giochi ho iniziato davvero a crederci. Onestamente ho iniziato a credere al fatto di poter sicuramente rimanere nei ricordi del taekwondo italiano. Poi la vittoria del mondiale, tre medaglie, la medaglia olimpica, questo poi è stato l'apoteosi, mi ha dato la consapevolezza di poter essere rimasto nella storia del nostro sport in Italia.

A che livello è il taekwondo italiano?
Il taekwondo italiano adesso è a un buon livello, ma non possiamo né dobbiamo accontentarci: conoscendo il movimento, conoscendo i ragazzi che adesso stanno in nazionale, ma anche quelli un po' più giovani, partendo dai cadetti dagli junior vedendoli, vedo tante potenzialità. E rompo le balle.

In che senso?
Sono un capitano, passami il termine, un po' stronzo. Se dicessi per primo "No, stiamo bene così, siamo forti" sarei il primo a sentirmi in difetto. Il livello è buono, ma c'è ancora tanto da lavorare soprattutto perché ci sono le possibilità per crescere ancora e sarebbe un gran peccato se non riuscissimo a ottenere quello che possiamo ottenere dai ragazzi di adesso e da quelli che verranno. Il nostro staff è è uno dei migliori al mondo: dai preparatori ai fisio, ai maestri. I ragazzi devono dare sempre tanto, non accontentarsi mai soprattutto i più giovani.

E a quel ragazzino di nome Simone che un giorno decise di smettere giocare a calcio per fare taekwondo cosa diresti? Ha fatto bene?
Sì ha fatto bene, ha fatto benissimo. Anzi colgo l'occasione per ringraziare mio padre che mi ha fatto fare quella scelta. Io poi arrogantemente quando gioco ancora con i miei amici a pallone glielo dico: "Voi siete fortunati, perché io non ho fatto calcio". Però poi so che non è vero, e anche loro sono soddisfatti della mia carriera. Ho avuto la straordinaria fortuna che mio padre e tutta la famiglia siano stati sempre con me per indirizzarmi verso questo percorso prima e poi a supportarmi, nonostante la lontananza da casa: da quando ho 15 anni io ho vissuto sempre lontano da casa, ma non mi hanno fatto mai mancare il loro supporto.

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Ed è per questo che ti sei tatuato la tua famiglia?
Assolutamente sì, ho i volti dei miei due genitori e anche il mio con quello di mio fratello: l'ho creato come fossimo quattro divinità,  dove mio padre è Zeus, mia madre Era. Sono stato fortunato ad avere una famiglia con sani valori che mi hanno trasmesso e spero un giorno di poterli trasmettere anch'io alla famiglia che mi creerò.

E l'altro tatuaggio che mostri sulle gambe "mors tua, vita mea" cos'è, il motto di Simone Alessio?
La genesi di quel tatuaggio è legata un po' al primo oro ma la sua storia viene da mia madre. Da quando ero piccolo mia madre mi diceva sempre: "Quando sei sul quadrato ricordati sempre: mors tua, vita mea. Perché devi devi vincere tu, perché non devi regalare le medaglie a nessun altro". Quindi lo porto con me, perché i valori familiari sono fondamentali, sempre, soprattutto quando sei piccolino.

E a un bambino che oggi ti vede e vorrebbe provare il taekwondo, cosa ti senti di dirgli?
Che deve provarci con la consapevolezza che nulla è facile. E' come una grande montagna, la salita è veramente difficile, veramente tosta perché ci sono tante situazioni in cui si penserà che mollare sia più facile. Ma ricordargli anche che poi quando arrivi in cima e riesci a ottenere una qualche soddisfazione, che non sia forza una medaglia olimpica, è estremamente soddisfacente. Semplicemente vincere una gara dopo averla preparata in maniera dura, con tanti sacrifici perché tra il mantenimento del peso, tra gli allenamenti, tra tutto ciò che concerne la preparazione, arrivare a vincere una gara è qualcosa di unico. Lì ci sei solo tu, il tuo maestro ti aiuta, lì vicino, ma alla fine sei da solo, con te stesso. E quindi quando vinci, vinci tu.

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