Luca Sinigaglia ha dato la sua vita per salvare una collega alpinista: “Ha agito con il cuore”

Luca Sinigaglia è l'alpinista italiano morto il 15 agosto dopo un coraggioso soccorso in alta quota, sul Pobeda Peak, la vetta più alta (7439 metri) del massiccio del Tien Shan in Kirghizistan. "Ha agito ascoltando quel che diceva il suo cuore", dice Cristina Guidi, amica e compagna di salite vertiginose dell'esperto scalatore 49enne di Melzo (Milano). Chi lo ha conosciuto lo ricorda come "una persona che viveva la montagna con grande spiritualità, umile e generosa… doti difficili da trovare oggi, in questo mondo di facciata e di atteggiamenti egoistici. Ha fatto quella che ha ritenuto giusto perché lui era così, profondo e sensibile. Insieme a lui e altri amici abbiamo fatto tante scalate, ci sentivamo come i Moschettieri… tutti per uno e uno per tutti perché sapevi che potevi mettere la tua vita in mano all'altro".
Ecco perché il dolore che si prova alla notizia del suo decesso è ancora più grande: non voleva essere un eroe ma solo compiere un gesto di grande umanità per salvare la vita della collega russa Natalia Nagovitsyna, rimasta bloccata a causa di una frattura alla gamba (è ancora lassù, ci sono pochissime speranze di ritrovarla viva).

Sinigaglia lo aveva già fatto in un'altra occasione, sul Khan Tengri, gruppo roccioso di oltre 7 mila metri: è il più alto del Kazakistan, ribattezzato il signore del cielo per quanto è imponente. E viene un brivido lungo la schiena ripensando alle coincidenze della sorte, a ciò che avvenne in quel frangente. "Luca si fermò per aiutare lei e il marito – aggiunge Andrea Maldini, amico e appassionato di alta montagna -. Allora riuscì a riportarla viva al campo base mentre l'altra persona morì".
Sinigaglia credeva che ce l'avrebbe fatta di nuovo: quando ha saputo cosa era successo a Natalia, assieme al compagno di cordata Gunther Siegmund, durante la discesa dopo aver raggiunto la vetta, non ha esitato a fare il possibile per aiutarla a resistere in condizioni climatiche e ambientali proibitive. Tornato al campo posto più in basso, ha racimolato una tenda, un sacco a pelo, un fornelletto e del gas, dei viveri per darle assistenza e aiutarla a resistere in condizioni estreme. Un edema cerebrale provocato dal vento ghiacciato gli è stato fatale.
"Luca era un alpinista molto esperto – racconta ancora Andrea – e altrettanto bravo anche a livello organizzativo. Prima di affrontare una scalata approntava ogni cosa nei minimi dettagli. Era in gamba e molto allenato, si muoveva bene, studiava con altrettanta precisione le rotazioni per acclimatarsi che sono fondamentali per abituare il corpo ad affrontare lo sforzo e lo stress quando sei in salita. Non si può che avere un grande ricordo di lui perché aveva doti umane non comuni".
Dario D'Aloise è sulla stessa lunghezza d'onda di Cristina e Andrea. "Luca tesseva unione tra le persone, era inclusivo ma al tempo stesso molto chiaro. Conosceva molo bene l'alta montagna e sapeva con chi affrontarla. Era capace e istruito. Quando sono stato con lui ho avuto la possibilità il metodo di preparazione perfetto oltre al fatto che era una bella persona".

Le sue ultime parole alla sorella, Patrizia, sono state: "Non preoccuparti, domani scendo… tvb". Il 23 luglio scorso Sinigaglia aveva scalato anche il Lenin Peak, una delle più alte vette del Pamir che raggiunge quota 7134 metri. Gli mancava solo il Pobeda per ricevere il premio Leopardo delle Nevi che viene assegnato allo scalatore che riesce a salire in cima alle cinque montagne sopra i settemila metri dell'ex Urss. Luca ce l'ha fatta ma il destino ha voluto che non tornasse mai più a casa.