Domenico Iannacone: “Voglio evitare la Tv omologata, spero che la Rai tenga accesa questa fiammella”

È tornato anche quest'anno con Che ci faccio qui, binocolo con cui Domenico Iannacone osserva le vite degli ultimi, i dimenticati, le storie di periferia dell'esistenza che sono dell'esistenza specchio. Il giornalista andrà in onda con l'ultima puntata di questa stagione martedì 10 maggio, su Rai3. In questa intervista racconta il percorso di genesi delle quattro serate di questa edizione, facendo una panoramica sulla realtà televisiva contemporanea, sullo stato della sua Rai3 "annacquata" e della Rai tutta: "Vive una stagione di appiattimento, deve evitare il rischio di una Tv omologata".
Che bilancio fai di questa stagione?
Sono contento, è stata una serie bella, ben accolta, anche se ci siamo trovati in mezzo alle forche caudine come collocazione, credo che al martedì nessuno ci si voglia avvicinare. Ci ho trovato le Iene, che considero miei diretti concorrenti, i due talk di Floris e di Bianca Berlinguer e poi Belve. Dulcis in fundo, c'è stata la riesplosione del caso Garlasco.
Caratteristica del tuo Che ci faccio qui è quella di uscire dal "sempre uguale della Tv". È una definizione corretta?
Credo di sì, raccontare quello che non che non si vede in TV è quasi un mandato che sento di avere, tant'è che a volte sono stato anche spinto a non fare delle cose che erano state trattate da altri. Non mi va proprio di impelagarmi in cose che già si sono viste in televisione.
Perché non le racconta nessuno, le vostre storie?
Secondo me non è che non le racconti nessuno, ma le raccontano male, questo è il problema. Il più grande danno che si fa alle storie è il fatto di non sapere raccontare, o farlo in modo velleitario. Mi sono sempre detto che forse era meglio narrare con un altro ritmo e soprattutto con un altro sguardo, quello che ti fa vedere le vicende in modo diverso.
C'è anche un problema di educazione del pubblico?
Io penso che il problema sia il modello imposto. Se tu vai in un supermercato, sugli scaffali troverai dei prodotti messi in bella mostra e destinati a diventare i più appetibili agli occhi del consumatore, quando magari nello scaffale a fianco, più defilati, ci sono prodotti anche migliori ma nascosti dall'ombra. Così succede con la proposta televisiva, che troppo spesso nasconde cose di qualità più alta in favore di un modus operandi alternativo nel fare certi programmi.
In questi anni hai sempre trovato grande sostegno da una nicchia di pubblico fedelissimo, che ti garantisce una libertà.
Sì, sostanzialmente è quello che mi protegge, uno zoccolo duro che malgrado tutto vede ciò che faccio, anche in condizioni estreme, negli orari più strani, con i salti, con con i passaggi da un giorno all'altro. E poi c'è anche la critica che mi tutela, in un certo senso mi preserva, anche in relazione al clima complesso che ora c'è in Rai.
Non avverti la necessità di dover andare anche oltre questo zoccolo duro?
Certo, io avrei bisogno di una programmazione più lunga, che all'inizio avevo. Io sono praticamente solo a girare, serve il tempo per rivedere tutto e montare, sennò come faccio?
Allo stesso tempo questa condizione solitaria, questa artigianalità, pare una condizione essenziale del prodotto che realizzi.
Concordo, è un modello televisivo che non puoi distorcere più di tanto. C'è un tempo pratico per girare, non è che posso mandare l'operatore da solo. Avere poche puntate mi costringe a non poter allargare la squadra di lavoro, fare e disfare come la tela di Penelope. Dopo circa centro puntate tra I dieci comandamenti e Che ci faccio qui, è complicato.

Capita che tu decida di raccontare una storia e poi la direzione cambi in corso d'opera?
Spesso. A parte che non so dove andrò a finire, questo elemento è rimasto da quando ho deciso di lasciare i talk e i programmi per altri. Sostanzialmente mi son detto "io parto per trattare un argomento", so dove andrò fisicamente per poter raccontare queste cose, ma non so dove questo argomento mi porterà. È una specie di incognita anche per me. Gran parte delle strutture avvengono per accostamento, per intreccio narrativo, anche nel momento in cui comincio a girare mi rendo conto che qualcosa sta prendendo forma. È come se avessi se avessi un masso e lo stessi scolpendo.
E poi immagino anche che quando qualcosa che devia il percorso, tutto è più soddisfacente.
Non sai quante volte le storie apparentemente secondarie diventano le principali e viceversa. Cambiare indirizzo rispetto a situazioni inaspettate che mi ritrovo davanti è una delle cose più belle che ho a disposizione. Per dire, il manicomio di Girifalco al centro della prima puntata, quando io sono entrato lì dentro scopro il ruolo fondamentale di quell'archivio, che è una specie di cartina tornasole della situazione della malattia mentale in Italia. Ho visionato le cartelle, abbiamo potuto fare una ricerca analitica che ci ha riportato alla storia di Pino Astuto, rinchiuso all'età di 8 anni e dimenticato nell’ex manicomio di Girifalco. La sua mente non era malata e nonostante tutto ha resistito al dolore, alla violenza, all’oblio.

Nei mesi scorsi in qualche modo hai tradotto Che ci faccio qui in forma teatrale. È stato un ripiego rispetto alla televisione, o hai pensato a un certo punto che fosse meglio della televisione?
C'è stato una un calore del pubblico incredibile, il teatro alimenta la televisione che faccio, così come la Tv restituisce al teatro, in una specie di circolo virtuoso. All'epoca poteva essere un ripiego, oggi non lo è più. Continuerà, perché è un progetto che si modifica continuamente e io la messa in scena la modifico anche a seconda di dove vado e di quello che racconto. Il teatro resta un luogo ideale per raccontare le storie senza nessun tipo di cappa censoria, c'è una piazza che ti dice "vieni" e tu sei solo sul palco.
Ed è anche un modo per capitalizzare al meglio il famoso zoccolo duro di cui parlavi, coltivare le nicchie.
Le nicchie vanno coltivate anche per non snaturare la televisione, per non farla diventare qualcosa di omologato. La televisione è piatta, legata proprio alla non capacità di creare delle diversificazioni. La mia rete, Rai 3, quella in cui lavoro da 25 anni, aveva un'identità molto forte che oggi vedo più labile.
È una cosa figlia del contesto politico, o c'è altro?
Io credo che ci siano tante considerazioni da fare intorno a questo appiattimento, non penso la questione si limiti solo della situazione politica, che forse rischia di creare delle gabbie. Penso anche che pesi la ristrutturazione aziendale in corso, con la riorganizzazione per generi che ha portato a uno svuotamento di molti punti di riconoscimento e riferimento delle reti, Rai 3 in primis.
Ti percepisci, come dire, un esempio, una sorta di riferimento?
Questa cosa la sento perché è capitato che me l'abbiano detta. Se è così, la avverto anche come una responsabilità ai giovani che si avvicinano al mestiere. Questo aspetto mi fa stare veramente bene e in armonia con il mio lavoro, perché penso che alla fine noi dobbiamo essere un modello per quelli che verranno dopo, come io ho avuto dei modelli, quando ho iniziato, a cui mi ispiravo.
Chiudiamo sull'appuntamento della presentazione dei Palinsesti Rai per il prossimo anno. Tu sai già qualcosa del tuo programma?
No, io non so nulla. Io spero che la Rai voglia tenere accesa questa fiammella, che non voglia fare un'azione energica di spegnimento. Non perché non me lo meriti io, perché poi io posso essere cambiato da altri, magari più bravi, ma non lo merita il modello televisivo alternativo, che deve sopravvivere.