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Antonia, Chiara Martegiani: “L’endometriosi mette le donne davanti ad una scelta. Così ho scoperto chi sono”

Chiara Martegiani è l’ideatrice, nonché protagonista di Antonia, la serie su Prime Video che finalmente parla ad una generazione poco indagata: quella dei 30enni. In questa intervista racconta la genesi del progetto, parlando delle tematiche affrontate dall’endometriosi alla psicoterapia.
A cura di Ilaria Costabile
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Foto Fabio Lovino, Look Giorgio Armani, Styling Sara Grittini, Hair Silvio Panico, Make up Giovanni Pirri
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 Chiara Martegiani è attrice, ideatrice e anche autrice di Antonia, la serie uscita il 4 marzo su Prime Video che ha il merito di affrontare tematiche importanti in maniera leggera, ma nient'affatto banale, anzi, fornendo una lettura allo spettatore decisamente più articolata e profonda di quanto ci si possa aspettare da una serie comedy. Quando la raggiungo a telefono, Chiara mi racconta della spinta che l'ha portata a credere in questo progetto, supportata anche dal compagno, Valerio Mastandrea, sottolinea quanto lo spaesamento che coglie i trentenni non sia indagato come si dovrebbe: "È lì che nasce il primo cambiamento vero di crescita e metti le basi per quello che sarai dopo". Eppure, quel dopo, non è così facile da affrontare, soprattutto se oltre al desiderio di non crescere mai davvero, sperando che le cose si risolvano da sole, arriva anche una malattia come l'endometriosi a sparigliare le carte.

Una patologia difficile da diagnosticare e da affrontare, che mette le donne davanti ad una scelta che, forse, mai avrebbero voluto prendere costrette dalle circostanze. Ed è da qui che parte un percorso, un viaggio alla ricerca di sé, di quello che si desidera, che si vuole essere davvero, a dispetto della società che ci impone caselle in cui definirci. "Non siamo perfette, non siamo imbattibili, ed è giusto raccontarci così" dice Martegiani e, come spesso accade, non c'è niente di più innovativo della verità.

Antonia è una serie che, prima ancora di affrontare il tema della malattia, parla ad una generazione precisa: quella dei trentenni. Come mai sono così poco raccontati?

È una domanda che non mi sono mai posta, lo fanno in pochissimi, in Italia forse nessuno lo aveva ancora fatto. Magari si pensa che la crescita avvenga prima, durante l’adolescenza, oppure si parla di uomini in crisi verso i 40, donne in età più avanzata. Anche per questo ho pensato che sarebbe stato interessante raccontarla. È un'età molto complessa, soprattutto per noi donne, c'è il primo cambiamento vero, una crescita significativa che mette le basi per quello che sarai dopo.

Interessante è il fatto che nella serie emergano una serie di affermazioni trite e ritrite, circa le donne, il dolore da sopportare. I luoghi comuni diventano uno strumento per scardinare i luoghi comuni stessi?

Queste affermazioni vengono fatte talmente tanto spesso e con tanta leggerezza, che diventano luoghi comuni all’interno di una malattia che molte donne non sanno di avere. Sono frasi facili da dire, perché sappiamo che la donna quando ha il ciclo sta male, ma magari dietro c’è tutt’altro.

L'endometriosi è una patologia che colpisce 3 milioni di donne in Italia, e mette di fronte all'annosa questione essere donne o madri. Quando si scopre di soffrirne, magari si arriva al punto di dover fare una scelta che non si vuole fare. 

Esatto, la serie affronta anche questo. Abbiamo davanti un personaggio a cui non interessa crescere, non le interessano i figli, perché è in un momento della sua vita dove l’idea di averne è lontana, ed è quello che è successo anche a me. Quando mi è stata diagnosticata la malattia, mi è stato detto "sbrigati a fare figli", ma non ci stavo assolutamente pensando. Questa malattia mette anche una pressione di questo tipo, che corrisponde a quello che la società ti chiede a 30 anni: che donna vuoi essere, con o senza figli? L’altra opzione dell'endometriosi, però, è la menopausa anticipata che ammazza tutta la tua femminilità. Le conseguenze di questa patologia, per questo, sono anche psicologiche, perché la donna è messa davanti a delle scelte importanti sul suo corpo.

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A proposito di percorso psicologico, ritieni sia necessario oltre che per accettare le proprie fragilità, anche per perdonare chi aveva contribuito ad alimentare la credenza di essere sbagliate?

Un percorso, in primis, deve servire a farci capire delle cose su noi stessi. Credo che l’accettazione, il perdonare chi ci aveva fatte sentire sbagliate, arrivi nel momento in cui hai chiarito delle cose con te, prima che con gli altri.

Parlare di malattia in una serie tv non è una cosa semplice, però il tuo compagno Valerio Mastandrea, è stato protagonista de Le Linea Verticale di Mattia Torre. Lì la malattia viene affrontata con sarcasmo, avete attinto anche da quel repertorio per restituire la stessa leggerezza?

Non abbiamo mai pensato alla Linea Verticale, chiaramente lì la tematica era diversa. Mattia era un grandissimo autore, che utilizzava l’ironia e il sarcasmo come pochi in Italia sanno fare. Abbiamo cercato di utilizzare l’ironia, il riferimento magari poteva essere verso progetti inglesi.

L'ironia è senza dubbio un valore aggiunto, anche nel trattare tematiche difficili come la malattia. 

Sono d'accordo. Nel nostro modo di raccontarla, non c’è condiscendenza verso la malattia. Questo approccio non spaventa lo spettatore nei confronti di ciò che andrà a vedere, magari lo fa riflettere, suscitando anche una risata. Sono toni che mi piacciono, li trovo interessanti.

Protagonista assoluta della serie insieme ad Antonia è la gallina. Possiamo intenderla come quella che in gergo si chiamerebbe una "red flag", di un qualcosa che va cambiato, un segnale d'allarme. Quali sono state nella tua vita le tue "galline", le hai affrontate?

La mia gallina è stata quella che mi ha dato la spinta per creare Antonia. È stata la crisi personale che ho avuto intorno ai 30 anni e l’arrivo della malattia. Tutte queste cose insieme, da sola non potevo gestirle e ho iniziato a fare un percorso. Per fortuna avevo già iniziato a creare la serie, poi la diagnosi è arrivata quando ero già in una fase di elaborazione, avendo questa idea che stavo sviluppando, dal punto di vista lavorativo mi sentivo meno persa, chiaramente ci ho dovuto fare i conti in maniera diversa.

Dal primo al sesto episodio è come se si chiudesse un ciclo. Antonia inizia convinta di sapere chi sia e cosa desidera, si ritrova alla fine della serie ad ammettere di non saperlo. Quando è liberatorio ammettere di non aver capito chi si è davvero, cosa si vuole, in una società che ci vuole sempre più definiti?

Parecchio. Lì c’è l’accettazione di te stesso e dal momento in cui ti accetti, significa che hai delle grandi consapevolezze. Sono quelle che danno la libertà più assoluta, solo quando sai chi sei e cosa vuoi realmente sei una persona libera. Non devi piacere agli altri o rispettare dei codici che ti vengono richiesti. Antonia non sa chi è e cosa vuole alla fine, ma il primo passo lo ha fatto, ha capito che deve fare un percorso.

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Il ché non è affatto scontato. 

Ma certo. In questa serie c’è tutto l’aspetto delle terapie, è stata scritta anche per sensibilizzare ad un'apertura verso la psicologia. Non è che si deve essere pazzi per andare in terapia, basta veramente poco per farsi aiutare, per capire delle piccole cose in più che, magari, possono anche cambiarti la vita.

Antonia e Radiosa, la sua migliore amica nella serie, sono due facce della stessa medaglia. È un modo di rappresentare due realtà diverse che riguardano le donne?

Sì, loro si trovano in due momenti della vita totalmente diversi. Sono personaggi molto simili, migliori amiche, che hanno più o meno lo stesso carattere. Anzi, Radiosa è sempre stata quella più materna nei confronti di Antonia, ma dal momento in cui ha dovuto spostare le sue attenzioni su Rosa, Antonia si sente un po’ abbandonata, e cerca di diventare più protettiva nei confronti dell’amica, facendo casini allucinanti, perché non ne è capace.

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Il modo in cui in Antonia si raccontano i personaggi maschili è interessante. Non corrispondono agli stereotipi, anzi, quasi li destrutturano, sono più accoglienti, fragili. 

Il nostro intento era proprio quello di creare un personaggio maschile non raccontato. Sono convinta che uomini così esistano, non penso ci sia solo l’uomo alfa, irrisolto, poco concreto, anzi magari uomini accoglienti, riflessivi ci sono e noi l’abbiamo voluto raccontare. La cosa bella del personaggio di Manfredi, ad esempio, è che ha una sensibilità più femminile, chi invece ha una sensibilità maschile è Antonia stessa, ed è questa la cosa interessante.

E questa sensibilità maschile è un qualcosa che ti appartiene?

No, assolutamente, invidio la leggerezza con la quale Antonia riesce a fuggire dalle situazioni. Io sono una che deve risolvere tutto, sono donna al 100% in questo. Delle volte sarebbe molto più facile lasciar andare.

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Qual è la falsa credenza più difficile da abbattere che riguarda le donne in questo momento?

Che la donna deve essere perfetta, non deve sbagliare, anche come madre. Le donne vengono sempre rappresentate come delle eroine, ma non lo siamo, ed è giusto parlare delle donne anche mostrandone quel lato non impeccabile.

Speri che le persone possano riconoscersi guardando questa serie, o magari si possa suscitare una riflessione in più?

Mi piacerebbe essere riuscita a raccontare, in piccola parte, anche quelle donne che hanno questa malattia e si sono sentite un po’ abbandonate, non capite, il fatto che si possano riconoscere, sarebbe un grande traguardo. Ma anche quelle persone che si sono sentite perse, che non erano sbagliate, ma semplicemente in un processo evolutivo, di crescita. Se abbiamo centrato una delle due tematiche, posso dirmi soddisfatta.

In questa serie sei stata sia protagonista che ideatrice. Quale delle due vesti vorresti approfondire di più?

Quella da ideatrice, autrice, anche un po’ direttrice creativa. Mi sono divertita molto, è stato un ruolo che mi ha appagato tantissimo, mi ha stimolato tanto. Approfondire l’aspetto dell’attrice va bene, ne sono felice, però penso di voler coltivare questa strada. La sto già coltivando.

È un modo per dire che ci saranno nuovi progetti?

Chissà (ride ndr.). Comunque sì, sto portando avanti altre idee, però ci vorrà del tempo per realizzarle.

Molti hanno paragonato Antonia a Fleabag, anche se credo il paragone non sia poi così calzante. Tu cosa ne pensi?

Il paragone è sbagliato, perché Fleabag è una cosa e Antonia ne è un’altra. Viene fatto automaticamente perché al centro c’è una donna, il formato è lo stesso, è una serie molto ritmata, però i messaggi sono totalmente diversi. Poi è un prodotto talmente alto che qualsiasi paragone finirebbe per distruggere le aspettative. Ad ogni modo, credo sia un progetto molto italiano, raccontiamo una ragazza italiana. Credo che il paragone si faccia perché c’è tanto bisogno di progetti al femminile di questo tipo, l’unico vero è Fleabag, è chiaro che appena c’è un’altra cosa simile, la mente vada lì, ma proprio perché ne vengono fatti pochi.

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A differenza di Antonia, tu sei diventata mamma. Come ha cambiato la percezione di te stessa questo evento?

Ho capito quali sono le priorità della mia vita, perché chiaramente cambia tutto. Comprendi quali sono le cose più importanti, quelle in cui devi impiegare più tempo e quelle dove sarebbe meglio lasciar perdere. Inizi a vedere anche la vita in maniera diversa, e questa è già una cosa gigante.

È un po' un paradosso. Passiamo gran parte del tempo a cercare di trovare il nostro centro, poi ci sono circostanze che lo spostano. 

La grande sfida della maternità e anche il grande traguardo è quando non il centro lo perdi. Perché un figlio ti stravolge la vita, però devi mantenere il centro di te stessa, si finisce per perdere tutto, cambiano le dinamiche all’interno della famiglia. Chi fa un percorso di ricerca di sé quando arriva un figlio, se lo hai fatto bene quel percorso, non perde se stesso, il problema potrebbe sollevarsi per chi non lo fa. Un figlio è uno scossone nella vita di una donna e bisogna avere degli uomini che capiscano.

A questo proposito, Valerio come ti ha sostenuta in questo progetto?

Mi ha spinta, dicendomi di portare avanti una mia idea. Poi si è pentito amaramente di questa cosa, perché l’ho intrappolato prima come direttore creativo e poi come attore, quindi non vedeva l’ora che finisse (ride ndr.) Ha protetto molto il progetto, ci ha aiutato, ci ha stimolato, è stato fondamentale. Semmai dovesse esserci una seconda stagione, prenderò io le redini della situazione, perché ormai mi sono fatta le ossa, sono pronta, posso rivestire quel ruolo.

In fin dei conti, la vita è fatta di cicli. 

Doveva andare così, lo faremo fuori alla prima puntata (ride ndr).

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