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Andrea Vianello: “Non tornerò a condurre. La Rai è stata un pezzo di vita, ma non c’era più prospettiva”

Il giornalista si racconta a Fanpage.it a pochi mesi dall’uscita dalla Rai: “Per il rispetto di ciò che sono stato ritengo sia corretto lasciare spazio ad altri. Mi guardo attorno”. Il racconto degli anni da direttore di Rai3: “L’addio di Floris fu un trauma”. Nel 2019 l’ictus che lo colpì: “Ero andato in onda fino a sera tardi. La rapidità di intervento fu fondamentale”.
A cura di Massimo Falcioni
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Giornalista, conduttore radiofonico e televisivo, direttore di rete e persino autore musicale. Tante passioni in una vita, quella di Andrea Vianello, separata nel 2019 da una linea di demarcazione, che ha segnato un prima ed un dopo, perlomeno in campo professionale. “In realtà non c’è un pre e post ictus – afferma in questa intervista a Fanpage.it – sono uguale a prima, magari con un problema in più, ma di sicuro più vero. Ho un rapporto più forte con me stesso. Quest’esperienza ha rimesso le priorità della mia esistenza al loro posto”. Poi il ritorno, con vari incarichi dirigenziali prima della separazione consensuale dalla Rai di alcuni mesi fa: "Non c'erano più le prospettive".

Romano, classe 1961, negli anni ottanta Vianello si iscrisse alla facoltà di Lettere Moderne, dopo la maturità conseguita al Liceo Scientifico. “Tornassi indietro farei il Classico – ammette – ma all’epoca la moda era quella e seguii le orme del mio fratello maggiore. Una volta diplomato, però, cambiai strada e diedi ascolto alle mie passioni. Mi innamorai della letteratura sudamericana, per la precisione di quella brasiliana, e ci realizzai la tesi. Argomento che, tra l’altro, mi sarebbe tornato utile successivamente, in occasione del mio ingresso in Rai”.

Fu in quello stesso periodo che decise di comporre i testi dei nuovi brani dello zio Edoardo: “Era in una fase in cui aveva deciso di aggiornarsi. Era terminata l’epopea degli anni sessanta e pure quella dei ‘Vianella’. Un giorno mi fece ascoltare una musica e gli chiesi di farmi provare a scrivere qualcosa. Lui accettò. Cercammo tante volte di portare qualche canzone al successo, proponendoci per ben sette volte a Sanremo. Non ci hanno mai preso, purtroppo. L’ultima volta al Festival di mio zio risale al 1967, il terribile anno in cui morì Tenco”.

L’assunzione in Rai arrivò alla fine degli anni ottanta, partecipando al concorso per giornalisti praticanti.

Ti correggo. Il mio esordio assoluto avvenne con Rosanna Lambertucci, fu lei a scoprirmi. Feci un provino per condurre un piccolo giochino all’interno di ‘Più sani e più belli’. Andavo in onda tre volte a settimana e avevo una buona parlantina, che sarebbe poi stata la mia forza. Poi, nel 1989, presi parte al concorsone. Non nutrivo grandi speranze, invece superai lo scritto e feci un ottimo orale.

E l’amore per letteratura brasiliana che ruolo ebbe?

Il mio saper parlare portoghese servì, perché cercavano persone che conoscessero lingue non usuali. Tra i venticinque che entrarono c’era anche l’immensa Ilaria Alpi, oltre ad altri bravi colleghi che sarebbero diventati corrispondenti, come Marc Innaro e Rino Pellino.

Una volta assunto, cosa accadde?

Svolgemmo un corso di formazione in attesa che le testate ci contattassero. All’inizio i tg non ci calcolarono, ma in radio c’erano direttori intelligenti come Livio Zanetti e Marco Conti, rispettivamente del Gr1 e Gr2, che ci diedero delle chance.

Approdò quindi a Radio1 Rai.

Cominciò un percorso straordinario e mi innamorai del mezzo. Partii come inviato e seguii i più gravi fatti di mafia, raccontando le terribili stragi del 1992. Esperienze professionali intense e dolorose, ma al contempo istruttive. Quei giorni vissuti a Palermo me li porto ancora oggi dentro.

Nel 1998 prese il timone di “Radio Anch’io”.

Ci rimasi per più di quattro anni, con una versione televisiva su Rai2 voluta da Carlo Freccero. Ricordo che utilizzavamo le webcam, che erano un qualcosa di avveniristico per quegli anni. Fu la mia prima vera esperienza da conduttore televisivo.

Da lì ad “Enigma” il passo fu breve.

Paolo Ruffini, mio direttore a Radio1, andò a Rai3 e mi propose di seguirlo. Pensai fosse il momento giusto. ‘Enigma’ era un programma interessante, dedicato ai misteri, e comparivo anche tra gli autori. Credo da sempre che i giornalisti debbano essere autori delle loro trasmissioni, non devono avere copioni scritti da altri.

Nel 2004 cedette il testimone a Corrado Augias e sbarcò a “Mi manda Rai3”.

Era un sabato mattina e Ruffini mi telefonò, informandomi che Piero Marrazzo si sarebbe candidato alla presidenza della Regione Lazio. In Rai c’era agitazione. Il mercoledì il programma sarebbe tornato in onda, ma mancava il conduttore. ‘Andrea, te la senti?’, mi chiese Ruffini. ‘Certo’, risposi. Per me era la grande occasione. ‘Mi manda Rai3’ era un titolo popolare, adatto alle mie caratteristiche. Sono polemico, credo nella giustizia e nella legalità e ho un’attenzione all’etica parecchio forte. Fatto sta che salii su questa barca in corsa, sostenuto da una grande squadra: basti pensare che tra gli autori c’era Stefano Coletta.

Raccoglievate decine di denunce alla settimana. Capitava di rimanere toccati emotivamente e di portarsi qualche vicenda anche a casa?

Dipendeva dalle storie. Avevo a che fare con persone che non avevano modo di farsi sentire e allora chiamavano la Rai. Se una compagnia telefonica aveva spedito una fattura onerosa, il problema non era vitale. C’era semplicemente un disservizio da riparare. Altre volte, invece, ti trovavi di fronte al vero dolore. Allora sì, quelle storie te le portavi dietro. Con qualcuno sono rimasto in contatto, ho stretto legami forti. Farsi carico del dolore degli altri ti gratifica, ma paghi anche un prezzo. E menomale. Nel nostro lavoro non hai un cartellino da timbrare, al contrario ti immergi a pieno nelle vite altrui. Sono orgoglioso di aver dato voce a chi non l’aveva.

Nel 2010 altro cambio ed ecco “Agorà”.

Rai3 voleva creare uno spazio di informazione politica al mattino. Su La7 ‘Omnibus’ si era preso una fetta di pubblico e l’intenzione era quella di costruire un analogo spazio di discussione, senza i toni della sera. Volevamo riavvicinare i cittadini alla politica. Dopo molti anni di ‘Mi manda Rai3’ accolsi la proposta. Non sono uno che si fossilizza, ho sempre bisogno di nuove esperienze.

In origine il programma si sarebbe dovuto chiamare “Ad onor del vero”.

Il titolo l’aveva scelto Antonio Di Bella e io nutrivo dei dubbi. Serviva un nome che venisse ricordato. Un giorno ero in motorino in piazza Euclide e mi apparve davanti il cartellone del film ‘Agorà’ di Alejandro Amenábar. ‘Eccolo, è perfetto’, mi dissi. In fondo, la agorà era la piazza dove i greci andavano a parlare. In più era di semplice memorizzazione, con l’accento finale che ricordava quello sulla ‘o’ di ‘Ballarò’.

Beccò in pieno la crisi economica, la fine del berlusconismo e il governo tecnico di Mario Monti. Anni tanto drammatici quanto stimolanti sul piano della narrazione.

Vero, le cose cambiavano in modo repentino. Ho ancora impressa nella mente la puntata in cui dichiarai: ‘Segnatevi questo nome: bunga bunga’. Eravamo equilibrati, c’erano tante voci e lì nacquero parecchie trovate, come ad esempio il ‘moviolone’. Inoltre usavo i social, che non erano la cloaca che sono oggi.

Si affidò a Twitter nel giorno in cui documentò in tempo reale il terremoto in Emilia Romagna.

Conducevo con il tablet in mano e mi affidai a Twitter in un’epoca in cui non c’era la triste inondazione di fake news. Se lo utilizzavi intelligentemente, potevi informarti senza l’ausilio dei lanci di agenzia.

Mollò nel mezzo della stagione 2012-2013 perché venne nominato direttore di Rai3.

Mi nominarono a novembre e divenni operativo a gennaio. Per due mesi rimasi in sella facendo su e giù tra gli studi e gli uffici di Viale Mazzini.

Gerardo Greco come successore lo scelse lei.

Esattamente. L’ad Luigi Gubitosi fu rispettoso della mia autonomia e mi lasciò libero di decidere. Gerardo era un collega di valore, aveva alle spalle tanti anni da corrispondente a New York e, soprattutto, era un interno Rai, unica richiesta che mi era arrivata dall’azienda.

Il passaggio di consegne con Gerardo Greco.
Il passaggio di consegne con Gerardo Greco.

L’idea generale è che un direttore comandi su tutto e tutti, non immaginando i vari vincoli a cui è sottoposto.

Guarda, stai parlando con un testone. Ho sempre chiesto autonomia e a volte ci sono stati degli attriti. E’ normale. I grandi conduttori hanno delle squadre autoriali alle spalle che devi rispettare. Se il grande volto ti porta a casa ottimi ascolti, la loro autonomia se la sono già guadagnata. Cercavo di non invadere il campo, limitandomi a coordinare, indirizzare, cercare una linea editoriale e portare nuove idee. Ero pagato per fare il direttore e certe scelte spettavano a me.

Quanto pesa il potere degli agenti?

Quello dell’agente è un tema. Ho sempre provato a porre degli argini, a volte non in maniera pacifica. Tuttavia, non ho mai portato avanti questioni personali.

La politica, invece, si è mai intromessa?

Devi farci in conti. Per quel che mi riguarda, ho sempre provato a tenere alta la parete, evitando invasioni. E a volte questo atteggiamento non è piaciuto.

Quale strategia adottò una volta insediato?

In tv bisogna provare e innovare, pure al rischio di sbagliare. Se non innovi, non fai servizio pubblico. Il lavoro più importante per un direttore è capire qual è un bisogno del pubblico non ancora espresso. Per mia fortuna avevo programmi molto forti che mi davano una media settimanale alta e mi consentivano di sperimentare negli altri giorni.

Fu lei a lanciare “Gazebo”.

Quando arrivai me lo trovai in palinsesto per il febbraio del 2013. Era un progetto su carta. Conoscevo Diego Bianchi, Andrea Salerno e Antonio Sofi, quest’ultimo curatore del ‘moviolone’ nella mia ‘Agorà’. Era programmato in seconda serata, la domenica, però capimmo subito che Zoro aveva trovato il linguaggio più innovativo degli ultimi quindici anni. L’anno successivo lo trasformammo in una striscia e togliemmo lo show di Fabio Volo, che non ci convinceva. Senza dimenticare che i primi tentativi in prime time avvennero con me.

Nel 2013 dovette fare anche i conti con il passaggio di Giovanni Floris a La7.

Fu un trauma. Sapevo che era in atto una trattativa complicata tra lui e la Rai, ma ero abbastanza convinto che si potesse chiudere bene. Il suo addio fu un fulmine a ciel sereno, che oltretutto arrivò molto tardi. Eravamo a luglio e all’avvio della nuova stagione mancavano appena due mesi. Dovevo scegliere velocemente e in un primo momento pensai proprio a Gerardo Greco. In lizza c’era anche Marco Damilano, ma la scelta di Massimo Giannini fu la più naturale. Era un grande giornalista, con grandi competenze politiche ed economiche ed era molto amato dagli spettatori. Era un esordiente, eppure aveva carisma.

“Ballarò” sarebbe durato ancora due stagioni, mentre “DiMartedì” è tuttora in palinsesto, con ampio successo.

L’obiettivo di Floris era portarsi a casa i nostri ascolti e quella battaglia fu parecchio complicata. Da una parte c’era un collega con dodici anni di ‘Ballarò’ alle spalle che se ne era andato altrove, dall’altra c’eravamo noi, con in mano solo il marchio. Alla fine la spuntammo. Lo scopo era ottenere uno spettatore in più di Giovanni e in quei due anni è sempre accaduto. Sul resto non posso risponderti, perché nel 2016 terminò il mio mandato di direttore. Fossi rimasto, avrei fatto continuare Massimo per un’altra stagione.

Tra i suoi meriti c’è l’aver assegnato una trasmissione a Giorgio Montanini.

Lo intercettai sul web e capii immediatamente che era fortissimo. Ci conoscemmo e costruimmo ‘Nemico pubblico’, un mix tra stand-up e candid. Giorgio è un talento straordinario, anche se molto difficile da gestire. Ha una comicità non sempre adatta al servizio pubblico. Arrivammo ad un compromesso e ci trovammo bene.

Capitolo flop: non posso non citare “Masterpiece”.

Mi prendo tutte le responsabilità, l’intuizione fu mia. Eravamo nel momento di massimo splendore dei talent ed era nato da poco ‘Masterchef’. Pensai ad un format dedicato agli scrittori, in virtù del fatto che dirigevo una rete culturale. Le problematiche furono evidenti: a ‘Masterchef’ vedi il piatto cucinato, a ‘X Factor’ senti la musica, mentre nel nostro caso maneggiavamo un argomento intimo come la scrittura che non riuscivamo a rendere televisivo. Contestualmente, ci fu una piccola rivolta, con la comunità dei lettori e degli scrittori che ci osservava con la bocca storta. Un aspetto positivo comunque me lo porto dietro.

Quale?

La quantità enorme di manoscritti e di candidati arrivata in una finestra temporale decisamente piccola. Capimmo che esisteva un mondo nascosto di scrittori.

Terminata l’avventura da direttore, riabbracciò la conduzione con “Rabona”. L’ictus la colpì in quella circostanza.

Sì. Eravamo all’inizio di febbraio, nel pieno della prima edizione. Il programma era di nicchia, dedicato al calcio, ma con un taglio tra il sociale e il narrativo, sulla scia di ‘Sfide’. La sera prima del malore ero andato in onda fino a tardi e già mi portavo dietro un forte mal di testa. Mi parve strano, ma in quelle circostanze l’adrenalina ti toglie ogni pensiero. Terminata la registrazione non lo sentii più, ma al risveglio il mattino dopo riapparve. Era in atto la dissecazione della carotide ed ebbi a malapena il tempo di capirlo. Mia moglie, molto lucidamente, riuscì a chiamare il 118 e spiegò che avevo metà corpo bloccato e che non riuscivo più a parlare.

Giunse in ospedale giusto in tempo.

I tempi sono fondamentali, lo predico in continuazione. Fui fortunato a trovare tutte le situazioni giuste al momento giusto. Ad esempio, quel sabato non c’era traffico e arrivai all’Umberto I rapidamente. Lì trovai un medico coraggioso che mi operò.

Riusciste a tenere la notizia riservata.

Al risveglio avevo perso le parole. Dentro la mia testa c’erano, ma non sapevo più tirarle fuori. Un mio collaboratore usò il mio profilo social per annunciare che la settimana successiva non ci saremmo stati.

Il tweet a cui fa riferimento recitava testuale: “Come durante una stagione può capitare a un calciatore, mi trovo alle prese con un infortunio. Torneremo presto in forma, con Rabona e con il resto. Grazie a tutti, non perdiamoci di vista”.

Esattamente. Ci inventammo questa scusa. Da lì in poi affrontai lunghi mesi di riabilitazione e sulla mia disavventura scrissi il libro ‘Ogni parola che sapevo’. Condivisi il dramma e non mi nascosi. Chi è vittima di un ictus subisce uno stigma. Io ho subito un danno, ma mi considero la stessa persona di prima. E’ evidente che se potessi tornare indietro eviterei questo incidente, ma siccome devo farci i conti ci convivo. Sono tornato a parlare, qualche volta inciampo con le parole. Pazienza. L’ictus è la seconda causa di morte e la prima di disabilità. Nonostante ciò, se ne parla poco, perché fa paura. Per decenni si è evitato di pronunciare la parola ‘cancro’, ora lo stesso tabù c’è per il termine ‘ictus’.

Sempre in tema di social, un anno fa non si trattenne e attaccò: “Ad Unomattina un osteopata ha scrocchiato il collo del conduttore in diretta. Secondo i medici mi ha causato la dissecazione della carotide e l’ictus, come ho raccontato e scritto pubblicamente varie volte. Gravissimo e pericoloso”. Scoppiò la bufera.

Non sono pentito. Chi mi salvò mi raccontò che il problema era sorto per via della manipolazione del collo. Non puoi eseguire un gesto su un conduttore (Massimiliano Ossini, ndr) senza neanche conoscere le sue condizioni di salute. Quello è un gesto violento, fatto per portare dei benefici, ma che va a toccare le arterie. Pure se parliamo di piccoli rischi, si ha il dovere di informare il pubblico. So di non essere amato dal mondo dell’osteopatia, ma quella era una mia posizione e la rivendico.

Il momento criticato da Vianello con la manovra su Massimiliano Ossini.
Il momento criticato da Vianello con la manovra su Massimiliano Ossini.

Torniamo al suo lavoro. Nell’estate del 2020 ripartì dalla direzione di Rai News 24.

Rai News e in seguito Radio1 sono stati il periodo più bello della mia vita. Con me il canale all-news andò molto bene e mi dispiacque non poter inaugurare il nuovo studio progettato da Renzo Piano. Lavorai per mesi con i suoi architetti. Inoltre, pochi giorni prima che me ne andassi venne ultimato il portale Rainews.it, che aveva l’ambizione di diventare l’unico polo informativo online della Rai.

Restò in carica solamente un anno e mezzo.

Decisamente poco. Non scelsi io di andarmene, anche se la nuova destinazione, Radio1, significava rientrare a casa. In entrambi i casi sono durato diciotto mesi. Cosa puoi fare in così poco tempo?

Rtv San Marino è stato l’ultimo atto.

Non fu una mia decisione. Mi venne affidata la guida dell’emittente e raccolsi la sfida. Purtroppo ad un certo punto non ci furono più le condizioni per proseguire. Sono felice che dopo il gesto delle mie dimissioni siano riusciti a salvare e rilanciare l’azienda.

Il 25 aprile scorso, giorno del suo compleanno, si è separato consensualmente dalla Rai.

Non è stato semplice. I trentacinque anni passati nel servizio pubblico rimangono. La Rai è davvero un pezzo della mia vita, l’ho amata tanto. Non è stato bello lasciarsi, ma mi sono reso conto che non c’erano prospettive, né l’interesse dei vertici nei miei confronti. Ho preferito liberarmi senza attriti e non intendo fare polemiche con quella che è stata casa mia. In questi mesi c’è stata la cosiddetta decantazione e adesso che la stagione è ricominciata ho ripreso a guardarmi attorno. La ‘passionaccia’, come la chiama Mentana, rimane.

Come vede il suo futuro?

Ho deciso di non tornare alla conduzione. Oddio, mai dire mai, però non è la mia attuale priorità. E’ un mestiere che credo di aver svolto bene e per il rispetto di ciò che sono stato ritengo sia corretto lasciare spazio ad altri. La mia intenzione è questa. Dopo l’ictus sono stato direttore di Rai News e Radio1, è bello vedere altre persone crescere. Ho 64 anni e la mia esperienza nel coordinamento editoriale può tornare utile. Mi auguro di intercettare nuove possibilità.

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