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Scandalo salva-banche, chi è senza peccato si indigni

Com’è possibile che solo ora che le banche “risolte” hanno svalutato azioni e obbligazioni subordinate la politica e i risparmiatori si accoragno che qualcosa non andava? E come si potrà prevenire ulteriori casi analoghi?
A cura di Luca Spoldi
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La vicenda delle banche “risolte (Banca Marche, Banca Etruria, Carife e CariChieti) sta assumendo toni sempre più politici: il presidente della commissione Istruzione del Senato, Andrea Marcucci (Pd), è infatti il primo firmatario (le altre firmatarie del documento sono le senatrici Pd Maria Teresa Bertuzzi, Camilla Fabbri, Donella Mattesini, Stefania Pezzopane e Laura Puppato) di un documento depositato oggi in Senato che chiede l’istituzione di una commissione d’inchiesta monocamerale sulla vicenda e accerti se vi siano state omissioni sul versante dei controlli e della vigilanza da parte degli organi preposti e stabilisca con chiarezza le responsabilità degli amministratori degli istituti di credito coinvolti.

Ben venga l’inchiesta, perché la vicenda rappresenta certamente l’ennesimo caso di “risparmio tradito” di cui è purtroppo ricca la recente storia della Repubblica Italiana, ma qualche distinguo è necessario. Premesso che quelle stesse forze politiche che ora si indignano per avrebbe portato sul lastrico 100-120 mila piccoli risparmiatori hanno votato a favore o si sono astenute (ma nessuno ha votato contro) le norme europee sulle procedure di “bail in” che hanno mandato in soffitta i salvataggi di stato a spese dei contribuenti (“bail out”), adottate ad esempio nel caso della Grecia, ma non di Cipro, e notato che il decreto “salva banche” ha comunque evitato di estendere anche agli obbligazionisti senior e ai depositanti (che sopra la soglia dei 100 mila euro non saranno più totalmente garantiti a partire dal prossimo gennaio con l’entrata in vigore delle nuove norme), occorre chiedersi se e cosa si sarebbe potuto fare ex ante per evitare l’esito a cui si è giunti.

La risposta è disarmantemente semplice: sarebbe occorsa e ancora occorre una maggiore educazione finanziaria, che in un paese di “ciucci saputi” è ciò che può e deve consentire di evitare che un investimento fatto in buona fede si trasformi in una perdita tale da indurre al suicidio, come sarebbe avvenuto nel caso di uno sfortunato pensionato di 68 anni che si sarebbe tolto la vita dopo aver investito in obbligazioni subordinate di Banca Etruria, e aver perso, 110 mila euro, i risparmi di una vita. Perché l’ignoranza in questo paese è tollerata, quando non foraggiata, da banche, assicurazioni, aziende e finanche istituzioni che pure dovrebbero garantire due diritti costituzionalmente riconosciuti come quello al lavoro e quello allo studio e vigilare sulla tutela del pubblico risparmio?

Il sospetto è che a guadagnarci da questo stato di cose siano in tanti: i politici, che hanno utilizzato in passato e forse continuano a farlo ancora oggi le banche come bancomat grazie alla maggiore generosità con cui gli istituti finanziano gli “amici” (mentre negano prestiti anche di piccoli importi alla clientela generica), ma anche perché riserva quasi inesauribile di poltrone d’oro; le banche e assicurazioni (o aziende, i casi Cirio prima e Deiulemar poi docent) perché se il risparmiatore poco conosce di costi e di rischi, più basso sarà il costo della raccolta o minore la qualità dei servizi che si dovrà offrire in cambio; gli stessi risparmiatori, che non accettano molte volte la realtà e pretenderebbero di ottenere tassi elevati a fronte di rischi modesti, il che è come dire voler vedere il sole a mezzanotte, possibilmente all’equatore.

Inevitabile in questa situazione che il conto finale lo paghi sempre il soggetto più debole, anche quando esistono delle tutele. Nel caso specifico le quattro banche erano commissariate da circa due anni e mezzo, con immediato esautoramento, a partire da tale data, dei precedenti organi amministrativi. Due anni e mezzo persi a menare il can per l’aia da parte delle Fondazioni azioniste e del mondo politico, annunciando (e poi smentendo) l’arrivo di fantomatici cavalieri bianchi e cordate di imprenditori “amici” (perché le banche italiane, specie quelle “popolari”, magari non quotate, sono “diverse”, più sane e più appetibili, anche quando nei bilanci hanno sofferenze, ossia prestiti che non verranno mai più rimborsati, che lievitano come il sufflè).

Due anni e mezzo persi senza che si accertassero ipso facto le responsabilità dei manager e degli organi di controllo (sindaci, revisori, Consob, Banca d’Italia). E i piccoli risparmiatori che hanno fatto nel frattempo? Hanno cercato di vendere azioni, che per definizione sono capitale di rischio, o obbligazioni subordinate, che per definizione sono prive di garanzia? Non risulta l’abbiano fatto, pur essendo stati informati dal commissariamento del loro istituto che le cose erano gravi assai. Hanno ritenuto di credere agli (ex) amministratori e alla loro professione di buona fede e di fiducia nelle magnifiche sorti “e progressive” che li attendevano?

O sono stati impossibilitati a vendere quei titoli, perché magari, come nel caso di Veneto Banca o di Banca popolare di Vicenza, non essendo quotati a determinare il valore di un’azione era il Cda stesso (previa approvazione da parte dell’assemblea) indipendentemente da quella cosa brutta e spiacevole che si chiama “realtà” e che tutti volevano tenere fuori dalla porta, sino a quando in aprile le azioni stesse con un tratto di penna sono state svalutate rispettivamente da 39,5 a 30,5 euro per azione (-22,8%) e da 62,5 a 48 euro per azione (-23,2%)?

Si noti che l’attività ispettiva della Bce (la stessa che ha “obbligato” gli istituti menzionati a svalutare il capitale e a lanciare ulteriori aumenti di capitale) ha già fatto emergere una correlazione tra capitale sottoscritto e finanziamenti concessi ad alcuni soci, che hanno già destato l’attenzione della stampa e delle associazioni dei consumatori, oltre che della magistratura, che ha già messo sotto inchiesta gli amministratori di Veneto Banca e di Banca popolare di Vicenza. Peccato, o per fortuna, che gli italiani sono facili a distrarsi o vi sarebbe il rischio che più che indignarsi ex post smettessero di fidarsi dei banchieri (e assicuratori e imprenditori) amici che hanno sotto casa.

Magari aprendo le porte al mercato (che questo paese non ama) e ad una maggiore concorrenza (amata ancora di meno) che è l’unica medicina per sradicare la mala pianta del risparmio tradito. Insieme, è chiaro, a un serio sforzo di educazione finanziaria che farebbe bene anche nel caso di fondi comuni, gestioni patrimoniali, polizze assicurative, mutui e quant’altro, e ad una efficace tutela (ossia alla possibilità di multe miliardarie, come capita da tempo in Gran Bretagna o Stati Uniti) del risparmio stesso e della trasparenza del mercato.

In Inghilterra la Financial Conduct Authority (Fca) ha imposto nel 2013 a 13 istituti di credito di rimborsare oltre 1,3 miliardi di sterline (1,5 miliardi di euro) a clienti ai quali avevano venduto polizze assicurative in modo fraudolento, ad esempio associandole alla vendita di un mutuo. In Italia troppe volte chi riceve un mutuo si sente “miracolato” dalla bontà del suo istituto e accetta di sottoscrivere, in cambio, assicurazioni, bond junior o azioni quali che siano. Tanto è tutta carta sicura, no? Fino a quando non si scopre che era cartaccia.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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