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Violenza ostetrica: tutte le testimonianze

La storia di Anita: “Quando ho chiesto di portare la bimba al nido gli infermieri si sono rifiutati”

Anita ha partorito all’ospedale Sandro Pertini di Roma lo scorso ottobre. Ci ha raccontato la sua esperienza di post parto, in cui si è sentita abbandonata a se stessa. “Dal punto di vista ginecologico nulla da dire, sono stata seguita benissimo. Una volta nata la bambina, mi sono sentita abbandonata”.
A cura di Natascia Grbic
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"Ero stanca, stremata e dolorante per il cesareo. La seconda notte ho chiesto se la bimba poteva andare al nido per qualche ora, in modo da riposare. Mi hanno detto di no, che non era possibile, che l'ospedale prevedeva che mamma e figlio stessero insieme 24 ore su 24 e che la piccola doveva essere allattata". Anita è una donna che ha partorito all'ospedale Sandro Pertini di Roma a ottobre dello scorso anno. Quando ha letto la notizia del neonato morto a tre giorni dalla nascita si è sentita male. "Quella madre potevo essere io. Ricordo benissimo quella stanchezza e il terrore di addormentarmi soffocando la bambina. Avevo detto a mio marito di telefonarmi ogni dieci minuti per controllare che fossi sveglia. Il post parto per me è stata un'esperienza orribile".

Anita ha partorito al Pertini a ottobre. "Mi sono trovata benissimo a livello ginecologico – racconta – ho fatto un cesareo programmato perché la bimba era podalica e sono stata seguita alla perfezione, su questo non ho nulla da dire. Il problema è stato il post parto, mi sono trovata allo sbaraglio e senza alcun tipo di aiuto".

Il parto cesareo di Anita è avvenuto a mezzogiorno, come da programma. Un momento per lei bellissimo e indimenticabile, dove è stata seguita con professionalità. "Alle 16 avevo già la bambina in camera con me. Era la prima figlia e non sapevo bene come muovermi dal punto di vista pratico, non solo per l'allattamento, ma anche per mettere il pannolino, una tutina. Puoi vederti anche 10mila video, ma quando devi farlo è un'altra cosa. Ciò che mi ha stupito in negativo è che pretendevano fossi pronta a poche ore dal cesareo, mentre io invece non riuscivo a muovermi. Anche per allattarla insistevano che mi mettessi su un fianco, che mi girassi, ma io non riuscivo, avevo dolore, la flebo in una mano. Non avevo aiuto se non un'ora al giorno o da mia madre o dal mio compagno. Mi sono trovata totalmente in balia degli eventi".

Quando Anita è entrata in ospedale ha firmato un foglio in cui si spiegavano le regole per il rooming in. "C'era scritto che se la mamma si sente stanca deve subito poggiare il neonato nella culla e non farlo dormire mai nel letto con lei. C'è poi questa parte, che cozza con tutto quello che succede poi in realtà, in cui ti dicono che per qualsiasi cosa puoi chiedere aiuto al personale. Quando io suonavo il campanello per chiedere di mettere la bimba nella culla perché non riuscivo a muovermi, alcuni lo facevano ma molto scocciati, altri mi invitavano invece a tenere la bimba nel letto con me. Mi ha colpito la frase di quest'ostetrica, che mi ha detto ‘cosa crede, che quando tornerà a casa dormirà nella culletta? Per un anno le aspetta questo'. Ero terrorizzata".

La paura di Anita era quella di addormentarsi e schiacciare la bambina, soffocandola. "Ho chiesto a mio marito di mettersi la sveglia e chiamarmi la notte ogni dieci minuti perché avevo la bimba nel letto con me e avevo paura di addormentarmi addosso a lei. Non mi reggevo in piedi, avevo sonno ed ero stremata, avevo il terrore di crollare e farle del male. Quando ho letto del neonato morto al Pertini ho rivissuto esattamente quei momenti perché era il mio pensiero e la mia paura costante. Nel mio panico avevo ideato una serie di escamotage per restare sveglia, ma non dovrebbe essere così. Bisognerebbe essere aiutate e supportate, ma questo non succede".

Sono tantissime le testimonianze di donne che, nei giorni successivi alla tragedia avvenuta al Pertini, stanno raccontando le loro storie di parto e post parto. Il problema dell'assistenza non sembra riscontrarsi in un solo ospedale, ma in ogni parte d'Italia. "La questione non è della singola struttura, è generale – conclude Anita – Parliamo tanto di attaccamento, bonding, rooming in, allattamento. Tutto giusto, si tratta di pratiche all'avanguardia che è bene siano recepite negli ospedali. Quello che però mi chiedo è, cosa dobbiamo fare per ottenere in supporto? Cosa deve fare una donna che partorisce? Nella mia esperienza mi ero sentita sola, pensavo di essere io il problema, e mi hanno fatto intendere più volte di non essere una madre adeguata e che non mi stavo occupando di mia figlia al 100%. Non mi aspettavo ci fossero invece tante donne a cui è successa questa cosa. Bisogna far sì che ci sia un supporto e qualcuno che possa essere di aiuto: se non vogliono far entrare il compagno, una madre o una suocera, allora bisogna garantire un'assistenza".

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