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Edith Bruck deportata ad Auschwitz: “Mi dissero ‘se sopravvivi racconta, non ci crederanno'”

Deportata ad Auschwitz nel 1944, Edith Bruck ha passato la sua intera vita a testimoniare gli orrori dell’Olocausto. Il suo racconto a Fanpage.it.
A cura di Lorenzo Sassi
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Edith Bruck è nata nel 1931 in un piccolo villaggio dell’Ungheria. È stata deportata e condotta ad Auschwitz nel 1944. Ha passato la sua intera vita a testimoniare gli orrori dell’Olocausto. Ha pubblicato più di 20 libri sull’argomento e ha passato gli ultimi anni a girare nelle scuole, catechizzando anche i più giovani che, ai suoi occhi, sono oggi la speranza più luminosa. Siamo stati a casa sua e l’abbiamo intervistata.

Edith Bruck abita in un piccolo appartamento nel centro di Roma. La casa è gelida. "Non uso il riscaldamento per via della guerra in Ucraina", racconta. Magrissima, se ne sta seduta sul divano. Dietro di lei una libreria sterminata e alle pareti foto in bianco e nero spedite direttamente dagli angoli più bui del ‘900. La maggior parte di queste raffigurano volti che non ci sono più. Tra queste anche un’istantanea che la ritrae insieme a Nelo Risi, regista e amante di Edith al quale ha dedicato buona parte della vita e che ha accudito in una decennale battaglia con l’Alzheimer.

Prima di iniziare l’intervista mi chiede di alzare la voce. Non ci sente più molto bene dall’orecchio sinistro. "È stato un soldato tedesco, mi ha colpito qui dietro", spiega mentre aspira l’ultimo tiro di sigarette Vogue slim (rosa). Fuma un pacchetto di sigarette al giorno nonostante abbia 91 anni. Spegne la sigaretta. Le dita affusolate sembrano altre sigarette Vogue slim (rosa). Mette via il posacenere (non rosa). Iniziamo.

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La vita prima dei tedeschi

"La povertà è stata abbastanza pesante. Però vivevo con tutta la mia famiglia. Poi nel ’42 è arrivata questa propaganda pazzesca. Non contavamo più per niente. Per esempio mi hanno trascinato nel bosco e mi hanno fatto sedere nuda sulle ortiche. E quando hanno bussato nel ’44, dopo la Pasqua ebraica, alla porta si sono presentati i gendarmi e i fascisti ungheresi, bestemmiando e insultando e offendendo mio padre, che intanto correva giù e su dalle scale con le mutande lunghe a cercare le medaglie. Mia madre intanto correva a vedere se era pronto il pane".

"Questo fascista poi ha buttato a terra le medaglie di mio padre. Ha detto ‘non valgono più niente, né queste, né la tua vita'. E gli ha dato uno schiaffo in faccia. Dopo quello schiaffo mi sono accorta che qualcosa si era rotto. Dopodiché ci hanno cacciato di casa e ci hanno portate nel ghetto del capoluogo. Poi ci hanno caricato nel vagone bestiame, dove questo soldato ha scaraventato un secchio e ridendo beffardamente ha detto bon voyage".

L'inizio della deportazione

Del treno che l’avrebbe condotta ad Auschwitz, Edith ricorda soprattutto i rumori. "La nostra vicina di casa aveva questo neonato che piangeva. Un pianto che ricorderò per sempre. Lo stesso suono che facevano i maiali quando a Natale venivano sgozzati nel paese". E poi la madre che le intreccia i capelli. "Non l’aveva mai fatto. Quella gentilezza mi ha terrorizzato".

"Ci hanno buttato giù dal treno e dai soldati sentivi urlare solo due cose: ‘destra' e ‘sinistra'. E non sapevo che ‘sinistra' significava camera a gas. ‘Destra' i lavori forzati. E io sono capitata con mia madre a sinistra. L'ultimo tedesco a sinistra si è inchinato verso di me. Era molto vicino. Forse non voleva farsi sentire degli altri e mi ha detto ‘vai a destra, vai a destra, vai a destra’. E io urlavo di no. È stato una scena inimmaginabile. Alla fine mia madre si è ginocchiata e ha supplicato il tedesco di lasciare la più piccola di tanti figli. Il tedesco di tutta risposta ha preso il calcio del fucile e l'ha colpita. Lei è totalmente caduta per terra. Io ero aggrappata alla sua carne. Finché non mi sono ritrovata a destra, con mia sorella. E lì è cominciato il calvario eterno, indimenticabile".

La vita nel campo di concentramento

"Le donne erano straordinarie. Qualcuno aveva trovato della carta rossa con cui una volta si avvolgevano i fiori e per un pezzo di pane veniva barattata, così all’alba, per l’appello, le donne si dipingevano le gote di rosso per sembrare più in salute".

Ad Auschwitz il pericolo maggiore era di essere selezionate. "Ho provato la fame più nera che si possa immaginare. E il freddo. Anche perché eravamo calve, con un paio di zoccoli ai piedi nudi e una vestaglia grigia che pizzicava, null’altro. Dormivamo in questi letti a castello dove ti capitava di dormire di fianco a un morto. Per la fame puoi fare qualsiasi cosa, anche mangiare escrementi". Cosa che ha fatto durante la "Marcia della morte".

Edith passa da Auschwitz per poi venire deportata a Dachau. Infine a Bergen-Belsen. "A Bergen-Belsen siamo stati pochi mesi e improvvisamente ci hanno spostato a piedi a Kristianstad. E durante questa marcia della morte — che si chiama proprio così perché seminavamo la morte, cadaveri — ricordo che qualcuno aveva gettato del pane dalle finestre, in mezzo alla strada. Non ne è rimasto niente. Ci siamo quasi ammazzati per delle briciole. Durante la marcia abbiamo mangiato cacca secca di vacca, immondizia, bucce di patate. La marcia è durata 5 settimane. Poi siamo rimasti alcune settimane a Kristianstad".

"Nessuno ti crederà, ma tu racconta"

Successivamente Edith fa ritorno a Bergen-Belsen. "Ero nel campo degli uomini. E quelle immagini non le dimenticherò mai, perché questo campo era ricoperto letteralmente di cadaveri di uomini. I soldati ci dissero che se avessimo avuto la forza di trascinare i cadaveri nella ‘Tenda della morte’ — un ammasso di cadaveri in fondo al campo — allora avremmo ottenuto doppia razione di zuppa. Io e mia sorella abbiamo detto di sì. Tra i corpi, un uomo mi ha balbettato prima di morire: se sopravvivi racconta, nessuno ci crederà ma racconta anche per noi". Edith e sua sorella hanno spostato i corpi, ma non hanno mai visto quella doppia razione di zuppa.

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"Poi ricordo che ci hanno incaricato di portare dei giubbotti con altre promesse di doppia razione. Io e mia sorella abbiamo detto ‘noi siamo forti, ce la facciamo'. Ma io dopo dieci passi non ce la facevo più. Ho buttato a terra i giubbotti, dopo 2 minuti i tedeschi non potevano più camminare perché la neve era piena di questi giubbotti azzurri. Hanno chiesto due volte chi l’avesse fatto. Uno di loro ha urlato ‘se non dite chi ha cominciato ammazzo ogni seconda persona'. A un certo punto ho fatto un piccolo passo in avanti. Piccolo, non sono un’eroina".

Lui si è avvicinato e l'ha colpito spaccandole l’orecchio. "Sono caduta ed ero piena di sangue nella neve. A quel punto mia sorella si è scagliato contro il tedesco. Il tedesco è caduto. Mia sorella ha corso verso di me e mi ha abbracciato. Ha detto ‘diciamo all'ultima preghiera'.  Eravamo nella neve insanguinate, abbracciate, e vedevo il tedesco avvicinarsi con la pistola puntata. E ha detto ‘va be’, è finita; tanto vivere o morire è uguale‘. Si è fermato di fronte a me, ha preso la pistola l’ha rimessa nella fodera".

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Non capiva cosa stava succedendo: "Ho pensato ora mi cava gli occhi, mi taglia a pezzi, mi tortura. Non lo so. Invece mi ha allungato la mano e mi ha aiutata ad alzarmi. E la cosa incredibile è che ho pensato ‘questo è l'uomo più buono del mondo'. E quando siamo rientrati a Bergen-Belsen lui era sparito. Non l’ho mai più rivisto".

La liberazione

Edith Bruck fu liberata insieme alla sorella nell’aprile del 1945. Nessun altro membro della sua famiglia ha mai fatto ritorno dai campi.

"Oggi lascio la mia testimonianza. Non credo che sia inutile, assolutamente. Mia madre oggi mi rimprovererebbe che non ho la sua fede. Entrando nella sinagoga oggi e vedendo solo le lettere ebraiche oppure uno scialle di preghiera, piango, non riesco a sopportare il ricordo. A mia madre direi che sono stata molto meglio di quello che lei immaginava".

E se dovesse dire chi è Edith Bruck, si descriverebbe così: "Un essere umano, come si deve e che non sa odiare. Se potessi abbraccerei il mondo".

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