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Opinioni

Quanto pesa il referendum sulla crisi bancaria italiana?

La borsa di Milano pare aver metabolizzato il rischio-referendum e torna a salire. Ma il settore bancario resta in bilico, in attesa di vedere come si chiuderà il tormentone-Mps e se ci saranno risorse sufficienti a sistemare la difficile partita della pulizia di bilancio…
A cura di Luca Spoldi
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Il referendum del 4 dicembre si avvicina e Piazza Affari, contagiata dal rally di Wall Street, dove gli indici sono tornati sui massimi storici, sembra aver metabolizzato l’ipotesi di una vittoria del “no”, perché dopo tutto ad oggi tanto la Brexit quanto l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca, che parte degli investitori temeva potessero scatenare l’inferno sui mercati, non hanno prodotto altro se non brevi discese degli indici rapidamente recuperate, sia pure al prezzo di una sempre più elevata volatilità dei mercati stessi, caratteristica che potrebbe essere spia del fatto che il peggio si debba ancora vedere e non è affatto alle spalle.

Particolarmente esposte al risultato del referendum sono, è ormai chiaro, le banche, anello debole dell’economia italiana che temono i contraccolpi dell’eventuale crisi di governo che potrebbe aprirsi in caso di rigetto della riforma costituzionale che il governo Renzi si è incaponito a varare prima di altre e più importanti riforme strutturali, per le quali evidentemente non ha ritenuto di avere i numeri in parlamento, cosa non sorprendente visto la refrattarietà dell’elettorato italiano e dei suoi rappresentanti di ogni colore a confrontarsi coi vincoli della realtà.

Quale che sia l’esito del referendum, il mercato ha da tempo messo Mps al centro dell’attenzione perché la delicatezza della situazione dell’istituto senese può condizionare tutta una serie di altre partite in corso, da Unicredit a Banca Carige, dalle quattro “good bank” (tre delle quali dovrebbero finire sotto il controllo di Ubi Banca) al definitivo superamento del problema principe delle banche tricolori, la massa di crediti “marci” (Npl, o crediti deteriorati) che impediscono loro di rilanciare la propria attività, già resa poco o nulla redditizia dallo scenario di tassi vicini a zero voluto dalla Bce per evitare un avvitamento della crisi del debito sovrano esplosa ormai cinque anni fa ma mai pienamente risolta.

A monte il problema resta quello della carenza di risorse, o di volontà “politica” di utilizzo delle risorse esistenti. I potenziali acquirenti, italiani e stranieri, non sono interessati ad assumersi un rischio sproporzionato al guadagno potenziale e continuano a pagare tra il 15% e il 25% del valore lordo di libro i crediti deteriorati che vengono collocati sul mercato. Ma le banche italiane, gravate da troppi Npl coperti troppo poco da accantonamenti a rischi su credito, non possono cederli per meno del 30% del valore salvo rari casi.

Il guaio è che devono comunque procedere con le cessioni, sia per la pressione esercitata dalla Bce (a sua volta pressata dalla Germania e dai paesi del Nord Europa affinché cessino quanto prima i sostegni straordinari ai mercati), sia perché se non ci si alleggerirà del peso degli Npl la crisi banco-sovrana, con un debito pubblico che continua a crescere, rischia di esplodere definitivamente. Ma di che cifre stiamo parlando? Uno stock consistente di sofferenze si riverserà sui mercati da qui a fine anno.

Mps intende “pulire” il bilancio di quasi 28 miliardi di sofferenze lorde, Unicredit è tentata di fare altrettanto (si parla di operazioni fino a 20 miliardi di euro), Banca Carige deve completare la cessione di almeno 800 milioni ma la cifra potrebbe salire, BpVi e Veneto Banca dovranno a breve cedere 4 miliardi, Banca Marche, Banca Etruria e CariChieti si dovranno sgravare di altri 3,7 miliardi di Npl prima che Ubi Banca sia disposta a rilevarne il controllo.

In tutto si potrebbe dunque arrivare a 57 miliardi di euro di Npl lordi da cedere sul mercato in pochi mesi, con un incasso di non più di 18-19 miliardi e un buco in bilancio di dimensioni circa analoghe per le banche coinvolte (che infatti potrebbero tentare di raccogliere già solo con Mps e Unicredit tra i 15 e i 18 miliardi di euro). Come noto da tempo il Fondo Atlante non potrà fare tutto da solo, anche se oggi Giuseppe Guzzetti, presidente di Fondazione Cariplo e dell’Acri e tra gli “sponsor” del fondo gestito da Questio Sgr, si è detto fiducioso al riguardo.

Secondo Guzzetti, che prima che banchiere è stato per decenni un importante esponente politico democristiano, Atlante 2, con gli 1,75 miliardi raccolti finora, dovrebbe avere risorse per tener fede ai propri impegni nei confronti di Mps e delle good bank. Ma se l’acquisto della tranche mezzanina di Mps richiederà un esborso di 1,6 miliardi come potrà intervenire nella vicenda delle good bank? L’ipotesi è che al fondo vadano non più di due terzi degli Npl da cartolarizzare, quindi circa 2,5 miliardi lordi (il cui 30%, se sarà questo il metro di valutazione, dovrebbe valere tra gli 800 e i 900 milioni).

A occhio già è difficile che Atlante riesca nell’impresa impegnando le risorse residue dei suoi due veicoli, in ogni caso resterebbero a quel punto senza risorsa alcuna le due popolari venete rilevate dal fondo. “Il futuro lo vedremo dal 5 dicembre” ha tagliato corto Guzzetti a chi gli chiedeva se questo non imporrà ai sottoscrittori di effettuare ulteriori versamenti. Sullo sfondo gli investitori specializzati in debito “distressed” sia italiani sia internazionali aspettano a loro volta l’esito della consultazione referendaria, convinti che l’eventuale vittoria dei “no” possa far abbassare le pretese alle banche italiane.

Il rischio sarebbe naturalmente quello, per azionisti e obbligazionisti di queste ultime, di dover subire conversioni forzose di bond in azioni e a successivi abbattimenti e reintegri dei capitali. Con l’intervento di chi è difficile capirlo, anche se proprio oggi torna a farsi strada l’idea di un qualche intervento “di salvataggio” da parte del Tesoro (che di Mps è azionista al 4%) nel caso altri investitori, come i fondi sovrani e i grandi gestori internazionali contattati da settimane, si defilassero.

Questa ipotesi tuttavia richiederebbe quanto meno un governo nel pieno dei suoi poteri ed in grado di ottenere un via libera dalla Ue e dai mercati, non certo di un eventuale governo dimissionario e così la situazione torna al punto di partenza: con poche risorse, scarsa crescita organica e troppa distanza tra le richieste dei venditori e le offerte degli acquirenti, la crisi del mercato del credito italiano sembra destinata ad una evoluzione sofferta sia nei tempi sia nei modi.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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