“Sotto l’alibi della Palestina un movimento violento contro il governo”: cosa dice il dossier riservato di Fratelli d’Italia

"Sotto l'alibi della Palestina si sta organizzando un movimento violento contro il governo della nazione". È l’incipit di un dossier riservato, classificato "ad uso interno, non adatto alla diffusione", recapitato ieri dalla segreteria di Fratelli d'Italia a tutti i parlamentari del partito. Il testo, redatto dall’ufficio studi che fa capo al sottosegretario a Palazzo Chigi Giovanbattista Fazzolari, indica in "maranza, anarchici e antagonisti" i presunti registi delle mobilitazioni in solidarietà a Gaza.
Il documento fa esplicito riferimento agli scontri di lunedì alla stazione centrale di Milano, nel pieno dello sciopero generale indetto dalla Usb e sostenuto dal Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali di Genova (Calp) per chiedere la fine del genocidio a Gaza, l'occupazione illegale della Palestina e gli accordi militari con Israele. Secondo FdI, le iniziative che quel giorno hanno bloccato porti, linee ferroviarie e tangenziali in più di 80 città sarebbero state "palesemente coordinate, con l'obiettivo di paralizzare il Paese colpendo i più importanti nodi logistici". Il partito di Giorgia Meloni arriva a evocare "il pericolo del fondamentalismo islamico", ipotizzando che dietro la Global Sumud Flotilla ci sia invece "un disegno in buona parte guidato da Hamas", e non un movimento umanitario nato dal basso.
La giornata dello sciopero e le reazioni del governo
Il 22 settembre, data dello sciopero generale, l'Italia ha visto la più ampia mobilitazione per Gaza dall'inizio dell'invasione militare israeliana in Palestina. Dalle metropoli ai paesi di provincia si sono fermati porti e stazioni, si sono bloccate strade, si è rallentato il ritmo del lavoro e della vita quotidiana: insegnanti, operai della logistica, lavoratrici e lavoratori dei servizi, migranti, precari, genitori con figli, pensionati e migliaia di studenti sono tornati in piazza spinti dalla volontà di affermare che il massacro quotidiano di Gaza riguarda anche l'Italia. Una protesta in larga parte pacifica, capace di superare sigle e appartenenze. Solo in serata, la premier Giorgia Meloni ha preso parola, ma solo per diffondere sui propri canali social le immagini degli scontri milanesi, senza mai citare Gaza né le ragioni dello sciopero e trasformando così la mobilitazione di centinaia di migliaia di persone in una questione di ordine pubblico. Il giorno successivo è arrivata poi la richiesta formale del capogruppo FdI alla Camera, Galeazzo Bignami, che ha sollecitato il ministro dell'Interno Matteo Piantedosi a riferire in Parlamento su chi avrebbe "cercato di portare un attacco alle istituzioni". Intervenendo poi a un convegno al Senato insieme al collega Lucio Malan, Bignami ha poi ripreso le tesi del dossier parlando di movimenti pacifisti "eterodiretti da Hamas".
Nel clima già acceso è intervenuto anche Matteo Salvini: il leader della Lega ha proposto che chi organizza una manifestazione debba versare una cauzione da trattenere in caso di disordini. La misura è stata subito respinta da Forza Italia e ha creato imbarazzo anche in Fratelli d'Italia, ma conferma un segnale di quanto nel centrodestra cresca l'idea di una stretta nei confronti delle piazze.
Una stretta che preoccupa
Il dossier e le dichiarazioni politiche che lo hanno seguito riaprono la discussione sui limiti del diritto di protesta e sul ruolo delle istituzioni nel garantire ordine pubblico senza restringere spazi di partecipazione democratica. L'ipotesi di una regia coordinata e violenta dietro le mobilitazioni, avanzata nel documento interno di Fratelli d'Italia, non è poi accompagnata da alcuna prova documentale e un approccio di questo tipo rischia di alimentare una narrazione pericolosa e generalizzante che finisce per mettere sullo stesso piano manifestazioni pacifiche e singoli episodi di tensione. La proposta di una cauzione obbligatoria per poter manifestare, rilanciata da Matteo Salvini, ha sollevato dubbi all'interno anche della stessa maggioranza: al momento non esiste alcun riferimento normativo che preveda misure simili, e l'ipotesi viene considerata da più parti come un potenziale ostacolo al diritto costituzionale di manifestare liberamente. In un contesto di crescente polarizzazione, il rischio è che il dissenso venga letto in chiave esclusivamente securitaria, con effetti che potrebbero incidere sulle garanzie democratiche riconosciute dalla Costituzione.