
Le piazze d'Italia, sabato 22 settembre, sono tornate a riempirsi di corpi e a risuonare di voci che non si sentivano da tempo. Dalle grandi città ai paesi di provincia, si sono fermati porti e stazioni, si sono bloccate strade, si è allentato il ritmo ordinario del lavoro e della vita quotidiana. C'erano centinaia di migliaia di persone, insegnanti, operai della logistica e lavoratrici dei servizi, migranti e precari, genitori con i figli, pensionati e migliaia e migliaia di studenti e studentesse, una generazione cresciuta ai margini della rappresentanza politica; l'ossatura nascosta del Paese che per un giorno ha scelto di farsi vedere e di contarsi.
A muovere tutto la necessità bruciante di dire che il massacro quotidiano di Gaza ci riguarda, che non è lontano e che non può essere ridotto a rumore di fondo. Lo sciopero generale indetto dalla USB e sostenuto dal CALP di Genova, insieme a decine di realtà di base, ha trovato in poche ore una forza imprevista: è diventato una presa di parola collettiva, capace di scavalcare sigle, appartenenze, calcoli di consenso, e di aprire una crepa profonda nel racconto dominante, quello che da mesi prova ad anestetizzare la coscienza pubblica e a trasformare chi protesta in un semplice disturbatore
Il potere ha reagito con la prevedibilità di chi non tollera che la realtà gli scappi di mano: Giorgia Meloni ha scelto di ridurre una mobilitazione nazionale a questione d'ordine pubblico, postando un video di scontri a Milano senza mai nominare Gaza, senza accennare al motivo per cui decine di migliaia di persone avevano scioperato, bloccando un intero Paese. Matteo Salvini è andato oltre: ha proposto che chi indice manifestazioni debba versare una cauzione, come se il diritto di sciopero, inciso nella Costituzione, potesse essere monetizzato e dunque scoraggiato; una proposta grave, non solo per il suo profilo giuridico, ma perché ancora una volta rivela l'insofferenza verso il dissenso, verso ogni forma di partecipazione non mediata, non filtrata e non addomesticata.
Ma la delegittimazione del dissenso non è certo un'invenzione di oggi, ma un dispositivo antico che si riattiva ogni volta che il potere teme ciò che non controlla: lo abbiamo visto recentemente con le proteste studentesche, con i movimenti per il clima e per l'ambiente. Accade ogni volta che la piazza smette di essere coreografia e torna a farsi luogo di conflitto, di aggregazione reale, di soggettività politica.
La storia italiana, del resto, non conosce diritti conquistati nella compostezza: la Repubblica è figlia della Resistenza, che fu lotta armata e disobbedienza radicale, non certo un rito educato. Gli scioperi del 1943, che furono determinanti nella lotta partigiana al Nazifascismo e aprirono la strada alla Costituzione democratica, furono atti di rottura; le lotte operaie e contadine del dopoguerra non si piegarono alla retorica della pacificazione. Negli anni Settanta le piazze furono attraversate da una generazione inquieta e represse con la stessa furia con cui, nel 2001, al G8 di Genova, lo Stato torturò e uccise: Carlo Giuliani steso a terra in piazza Alimonda, la Diaz e Bolzaneto a ricordarci quanto rapidamente l'ordine pubblico possa travestirsi da violenza di Stato. Ogni volta la narrazione ufficiale ha provato a isolare il dissenso, a farlo sembrare devianza; ogni volta la giustizia ha potuto avanzare solo perché qualcuno ha avuto il coraggio di spezzare l'ordine.
Il 22 settembre quella storia è tornata a pulsare sotto i nostri piedi per ricordarci che l'ingiustizia che si consuma a Gaza e in Palestina ci riguarda, e che la democrazia qui si restringe ogni volta che si tenta di svuotare il diritto di sciopero, di manifestare, di dissentire. Di fronte a questa evidenza, il potere si aggrappa dunque alla parola "violenza" come a un'arma retorica; ma è ipocrisia pretendere piazze educate mentre altrove si stermina un popolo: è un modo per eludere la domanda che la piazza pone – di fronte a un genocidio, che cosa significa davvero essere cittadini di una democrazia? Chi governa finge di non saperlo, ma il Paese che si è fermato l'ha capito da un pezzo: un'Italia tornata cosciente, plurale, radicale, solidale; un'Italia che rifiuta di essere spettatrice di un genocidio normalizzato e che ritrova nella difesa dei diritti internazionali, del diritto allo sciopero, della libertà di dissenso, una propria dignità collettiva.
Da quella giornata non resta soltanto la memoria di un corteo ben riuscito: è nato un movimento da far crescere rispettandone l'auto-organizzazione e i cammini, rimettendo al centro il potere reale di lavoratrici e lavoratori, lo sciopero come espressione di forza democratica contro un potere indifferente e impermeabile. Un germoglio da proteggere, costruendo nuovi luoghi di incontro tra organizzazioni diverse, capaci di raccogliere questa spinta solidale dal basso e di trasformarla in pratica comune. Perché la democrazia, ogni volta che rinasce, lo fa così: nel terreno vivo del conflitto, nelle piazze e nelle strade, grazie alla pazienza e alla tenacia di chi sa che un germoglio diventa albero solo se molti, insieme, scelgono di custodirlo.
