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Non c’è proprio niente da festeggiare se l’occupazione cresce ma il lavoro delle donne resta fermo al palo

L’Italia festeggia l’occupazione che cresce, ma solo perché alle donne chiediamo di lavorare di più, essere pagate di meno e sorridere comunque. È il solito miracolo all’italiana: metà Paese sale nell’ascensore sociale, l’altra metà lo tiene con una mano.
A cura di Francesca Moriero
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C'è un'Italia che continua a raccontarsi come un Paese moderno, europeo e competitivo. E poi c'è quella che compare, impietosa, scorrendo i numeri dell'Inps: un Paese che cresce "un po' per ciascuno", ma molto meno per le donne. È la solita favola, quella in cui la protagonista fa tre lavori e alla fine muore stremata mentre il principe spiega che sì, la ama tanto, ma gli orari della fiaba sono quelli che sono.

Nel 2024 quasi una donna su due nel settore privato ha lavorato in part-time. Part-time, naturalmente, non per scelta: più correttamente sarebbe "part-vita". Perché quando il 49% delle lavoratrici è ancora incastrato in orari ridotti contro il 21% degli uomini, l'unica cosa orizzontale non è il contratto, ma la stanchezza. La crescita dell'occupazione? C'è. Ma sembra un paradosso di Kafka: più posti, più contratti, più "opportunità", e però lo stesso identico numero di giornate lavorate. Una matematica che non mente: più persone, meno ore, salari che scivolano come sabbia da un secchiello bucato.

E dentro quel secchiello chi vedi? Sempre le donne. Pagate 20mila euro contro i 28mila degli uomini. Non una differenza: una voragine. Ma ce la raccontiamo come se fosse un piccolo difetto di fabbrica, una cucitura che prima o poi sistemeremo.

La nuova occupazione arriva per il 60% nei servizi a bassa produttività: ristorazione, commercio, edilizia. Settori dove si lavora "a picchi", che già linguistica­mente dice tutto: picchi di lavoro e picchi di vita interrotta. In hotel e ristoranti si arriva in media a 11.233 euro annui. Undicimila euro. È quasi poetico, se non fosse tragico: lo stipendio si misura in numeri a quattro cifre, la fatica in numeri infiniti. E allora li vedi, in fondo alla catena alimentare del mercato del lavoro, i somministrati e gli intermittenti: 133 giornate l'anno i primi, 48 i secondi. Quarantotto. Meno di due mesi. Roba che se fosse un amore, gli amici ti direbbero: "Lascialo, ti sta usando". Ma nel lavoro questo non vale: devi tenertelo stretto, perché alternare mesi pieni a mesi vuoti non è un rapporto tossico, è "flessibilità".

La flessibilità, in Italia, è una parola che abbiamo reso sacra; una religione del sacrificio femminile, dove il tempo delle donne è sempre disponibile, modulabile, comprimibile come un file zip. In quello spazio minuscolo devono entrarci il lavoro, i figli, la cura domestica, un po' di dignità quando avanza. Di solito non avanza.

Il punto non è l'occupazione femminile che cresce: è la qualità che resta scandalosamente bassa. Un Paese sospeso tra riforme annunciate e una realtà che si ostina a sembrare Medioevo con la fibra ottica. E ogni volta che gli indicatori sembrano migliorare, arriva l'ennesimo numero a ricordarci che il problema non è la quantità del lavoro femminile, ma il suo perimetro: ristretto, precario, sottopagato. Pensato per chi può permettersi di lavorare a metà, non per chi non ha scelta.

Le donne in Italia lavorano più degli uomini: sommano lavoro retribuito e lavoro non pagato. Lo fanno per il Paese, per le famiglie, per l'economia. E in cambio ricevono contratti brevi, part-time involontari, carriere inceppate e stipendi che non tengono il passo dell'inflazione, né della vita. È come correre una maratona mentre qualcuno ti mette sassolini nelle scarpe "perché così ti abitui alla resilienza".

Non è resilienza, è sfruttamento. È miopia politica. È un Paese che spreca la metà del suo potenziale produttivo perché crede ancora che la cura sia un affare privato, non un'infrastruttura pubblica. E ogni volta che si parla di "gender pay gap" sembra un concetto astratto, un fenomeno naturale; come se la differenza salariale tra uomini e donne fosse un evento atmosferico, non il prodotto di scelte precise, di politiche assenti o sbagliate, di un sistema che continua a trattare il tempo femminile come un bene gratuito. Il problema non sono le donne che non lavorano abbastanza, è l'Italia che non le paga abbastanza quando lavorano. Che non offre servizi adeguati, orari compatibili, protezioni reali. Che non capisce che l'uguaglianza non è solo un obiettivo civile: è anche un vantaggio economico, un moltiplicatore di futuro.

E allora sì, continuiamo pure a festeggiare l'aumento degli occupati. Ma almeno abbiamo l'onestà di guardare chi paga il prezzo di questa crescita. Perché se l'ascensore sociale si muove solo per metà della popolazione, quello non è progresso. È un guasto. E da troppo tempo facciamo finta che il tecnico stia arrivando.

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Genovese trapiantata a Roma. Ho lavorato per Class Editori e Radio3 e ho frequentato la scuola di giornalismo Lelio Basso. Per molti anni, come freelance, mi sono occupata di politica nazionale e internazionale, realizzando reportage sul campo in Paesi come Turchia, Siria, Albania, Bosnia. Ho collaborato con Domani, Internazionale, il manifesto, Lifegate e Tpi. Oggi a Fanpage scrivo di politica e tematiche sociali. 
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