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Migranti, nuovo piano del governo: “Più ingressi regolari, ma solo da Paesi che collaborano sui rimpatri”

Il ministro Piantedosi rilancia la strategia del governo per fermare gli sbarchi irregolari con nuovi accordi su ingressi legali in cambio di collaborazione sui rimpatri. Ma le ong avvertono: senza visti accessibili e regole trasparenti, il piano rischia di restare sulla carta.
A cura di Francesca Moriero
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Il ministro dell'Interno Matteo Piantedosi rilancia la strategia del governo sull'immigrazione: ridurre le partenze illegali aprendo nuove vie d'accesso regolari. Sarebbe questo il cuore della missione diplomatica che lo ha portato, nella serata di ieri, in Bangladesh e Pakistan, due paesi da cui proviene una parte significativa dei migranti diretti verso l'Italia. L'obiettivo dichiarato sarebbe duplice: proporre quote di ingressi legali e, in cambio, ottenere l'impegno dei paesi di origine a collaborare sul fronte dei rimpatri e del controllo dei flussi irregolari. La stessa linea, spiega Piantedosi in un'intervista su Il Giornale, sarebbe già in atto con altri paesi considerati strategici per il contenimento dei flussi migratori, come la Libia, la Tunisia e l'Algeria, luoghi con cui l'Italia ha già stretto negli anni patti per rafforzare i controlli alle frontiere e limitare così le partenze.

Restano però aperti numerosi nodi, dal trattamento delle domande di visto, all'effettiva accessibilità dei canali regolari per chi fugge da situazioni difficili. E le critiche non mancano, soprattutto da parte delle organizzazioni umanitarie.

Un piano basato su "ingressi selezionati" e cooperazione

Secondo il ministro, la priorità è fermare il traffico di esseri umani e interrompere le rotte pericolose nel Mediterraneo, sostituendo i viaggi illegali con flussi controllati e sicuri: "Vogliamo rendere possibile entrare in Italia solo tramite canali autorizzati, eliminando le tratte gestite dai trafficanti", è il concetto di fondo su cui si baserebbe l'iniziativa. Il piano prevede che i paesi di partenza accettino di collaborare più attivamente nel contrasto alle partenze irregolari e nel rimpatrio dei loro cittadini senza titolo di soggiorno. In cambio, l'Italia si impegnerebbe a offrire quote di ingresso legale, calibrate in base alle esigenze del mercato del lavoro e alle richieste umanitarie. Nel caso della Libia, Piantedosi ha sottolineato i buoni rapporti con il generale Haftar e le autorità locali, che a suo dire stanno contrastando in modo più efficace i flussi irregolari; per quanto riguarda l'Albania, invece, i due centri destinati alla gestione dei migranti intercettati in mare saranno pienamente operativi dal 2026, nell'ambito dell'accordo bilaterale già firmato. Il ministro ha rivendicato poi anche i risultati già ottenuti, sostenendo che il 2024 ha visto un calo del 10% degli sbarchi rispetto all’anno precedente: a suo avviso, sarebbe la prova che la linea dei "canali regolari in cambio di controllo sui rimpatri" funzionerebbe.

Il nodo dei visti e la denuncia delle ong: "Serve un sistema più equo"

Se da un lato il piano appare razionale, dall'altro molte voci della società civile mettono in dubbio che la macchina statale sia davvero pronta a garantire vie di accesso legali e dignitose. La questione dei visti sarebbe uno degli aspetti più critici, a denunciarlo è Valentina Brinis, responsabile advocacy di Open Arms, che ha commentato così la proposta del Viminale:

"La proposta del Governo di incrementare gli accordi con alcuni paesi per poter agevolare il movimento regolare dei loro cittadini ci trova favorevoli, soprattutto per evitare che questi percorrano rotte pericolose e, in molti casi, mortali", ha detto. "Ci auguriamo che il Governo intenda farlo in maniera scientifica e non propagandistica garantendo davvero la possibilità di accedere alla richiesta dei visti in modo semplice e lineare. Il caso del Bangladesh, per esempio, ci ha sempre lasciati sgomenti: come è possibile infatti incontrare nel Mediterraneo centrale persone di quel paese che, come è noto, non si trova dall’altra parte del Mediterraneo? Il punto, sono i visti di ingresso. I bengalesi possono andare in 16 paesi senza il visto e in 148 chiedendolo con largo anticipo. Ma quando tale richiesta viene fatta all’Italia ottiene una risposta negativa nell’oltre il 40% dei casi, come è accaduto negli anni scorsi. La politica che regola la loro concessione si rivela spesso discriminatoria: i visti sono costosi, a volte anche più dello stipendio medio del paese in cui vengono richiesti, e le condizioni logistiche per richiederlo non sempre sono favorevoli. L’assenza di documenti di viaggio, però, non dissuade, fino in fondo, chi ha l’esigenza di spostarsi dalla propria terra per ragioni legate all’invivibilità della stessa, per lavoro, per studio, famiglia o anche per il semplice desiderio di vedere cosa accade altrove. Ecco perché è importante mettere mano a questa materia", ha poi aggiunto. Le parole di Brinis evidenziano una contraddizione fondamentale: non basta annunciare quote regolari se poi, nella pratica, l'accesso ai visti è ostacolato da barriere economiche e burocratiche. Se il sistema rimane rigido, selettivo e discriminatorio, come dichiarato da Open Arms, le persone continueranno a tentare di oltrepassare le rotte irregolari, con tutti i rischi che questo comporta, per raggiungere la possibilità di una nuova vita.

La strategia del governo cerca insomma di posizionarsi come una via di mezzo tra accoglienza controllata e rigore nei rimpatri. Ma perché funzioni davvero, come sostengono le Ong, dovrà basarsi su un sistema di accesso legale credibile, trasparente e accessibile. Le critiche come quella di Open Arms, mettono infatti in luce quanto sia urgente riformare davvero l'intero sistema e soprattutto il meccanismo dei visti, che oggi esclude migliaia di persone costringendole a cercare altre vie, spesso letali.

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