Gaza, il piano finale di Netanyahu: sfollamento, conquista, distruzione, occupazione

Benjamin Netanyahu, il 5 maggio scorso, lo ha detto senza mezzi termini: "Siamo alla vigilia di un'invasione massiccia". In un video diffuso su X (ex Twitter), il premier israeliano ha annunciato l'avvio imminente di una nuova fase dell'operazione militare contro Gaza. In sottofondo il suono di un bicchiere di soda, in primo piano l'intenzione chiara: "Il capo di stato maggiore Eyal Zamir ci ha raccomandato di puntare alla distruzione totale di Hamas". L'annuncio arriva dopo 19 mesi di guerra e oltre 52mila morti. E con esso, la conferma che Israele non ha alcuna intenzione di ritirarsi, anzi: il piano è occupare e restare. "Per la sicurezza della popolazione di Gaza", ha detto Netanyahu, "sarà necessario spostarla verso sud". Un trasferimento forzato, già al centro delle critiche dell'ONU e di numerosi governi occidentali.
Obiettivo: territorio, non ostaggi
A Gerusalemme, il gabinetto di sicurezza ha dato il via libera all'unanimità al nuovo piano militare per Gaza; l'annuncio è arrivato dal portavoce governativo David Mencer, che ha ribadito gli obiettivi ufficiali: "Sconfiggere Hamas e riportare a casa gli ostaggi". Ma proprio sul destino degli ostaggi si apre un'altra frattura: a parlare di "tradimento", infatti, sarebbero le stesse famiglie dei prigionieri, riunite in un Forum che da mesi chiede al governo di mettere al centro le vite dei loro cari. "Hanno scelto i territori al posto dei nostri figli", accusano, citando sondaggi che mostrano una netta maggioranza di israeliani, oltre il 70%, favorevoli a una soluzione diplomatica per la loro liberazione. A rendere ancora più esplicita la rottura tra parole e intenti è stato il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, tra i più intransigenti della destra israeliana: "Conquisteremo Gaza e ci rimarremo. Nemmeno in cambio degli ostaggi ci sarà un ritiro". Parole che contraddicono apertamente le rassicurazioni dell'Idf, secondo cui la presenza militare israeliana sulla Striscia dovrebbe essere invece "solo temporanea e legata agli obiettivi dell'operazione". Intanto, l'esercito ha avviato il richiamo di decine di migliaia di riservisti, per preparare una nuova fase dell'offensiva di terra. Per questo, a Gerusalemme, centinaia di manifestanti si sono riuniti davanti agli uffici del primo ministro Netanyahu. Tra loro, anche molti appartenenti alla comunità ultraortodossa, scesi in strada contro l'obbligo di leva. Blocchi stradali, scontri con la polizia e arresti hanno scandito una giornata carica di tensione. La protesta è scoppiata anche dopo l'arresto, all'aeroporto, di alcuni disertori che cercavano di lasciare il Paese.
Secondo fonti israeliane, l’inizio dell'operazione sarebbe previsto subito dopo la visita del presidente Donald Trump in Medio Oriente, atteso in Arabia Saudita, Emirati e Qatar dal 13 al 16 maggio.
La strategia di Israele
I dettagli del piano trapelano da fonti militari e giornalistiche locali: la strategia prevederebbe una penetrazione graduale nel territorio, a partire dalla zona di Rafah, a sud, dove sarebbero già in corso lavori di sgombero delle macerie per allestire aree di accoglienza e distribuzione degli aiuti umanitari. La Striscia verrà poi suddivisa in tre settori, sud, centro e nord, delimitati da corridoi militari già sotto controllo israeliano: Morag, tra Rafah e Khan Yunis, e Netzarim, a sud di Gaza City. La prospettiva, come sottolineano anche alcune emittenti pubbliche, non sarebbe dunque quella di un blitz ma di una vera occupazione a lungo termine, con operazioni estese e "bonifiche" in superficie e nei tunnel, solo parzialmente "neutralizzati" finora.
Mentre il ministro Smotrich rilancia l'idea di una conquista permanente della Striscia, altri membri del governo e delle forze armate mantengono toni più cauti. Ufficiali citati da Ynet ammettono che le aree dove si sospetta la presenza degli ostaggi non saranno oggetto di operazioni immediate: il piano mirerebbe piuttosto al controllo militare di porzioni selezionate del territorio. Secondo l'emittente Kan, l'intera operazione potrebbe protrarsi per mesi. Sullo sfondo, ritorna l'eco del cosiddetto "piano Trump" per la "Riviera Gaza", con incentivi all'emigrazione "volontaria" dei palestinesi e contatti diplomatici in corso con altri Paesi.
Le critiche al piano di Netanyahu
L'unico punto di scontro emerso nella riunione di domenica, all'interno del gabinetto israeliano, riguarderebbe l'accesso degli aiuti umanitari a Gaza. Il capo di stato maggiore Eyal Zamir avrebbe insistito per consentirne l'ingresso, temendo che l'operazione militare perda legittimità agli occhi della comunità internazionale. Ma il ministro della Sicurezza Itamar Ben-Gvir ha respinto con veemenza la proposta, arrivando a suggerire il bombardamento diretto delle riserve alimentari di Hamas. Zamir ha ribattuto duramente: "Idee come questa mettono in pericolo Israele. Esiste il diritto internazionale e va rispettato: non possiamo affamare la popolazione". Netanyahu ha scelto una posizione mediana, riconoscendo a Ben-Gvir il diritto di esprimersi, ma portando comunque a votazione la proposta. Con il voto contrario dello stesso Ben-Gvir e della ministra Orit Strock, sarebbe passata la decisione di riaprire, in modo selettivo e sotto stretto controllo, i canali per l'ingresso degli aiuti. Hamas, dal canto suo, accusa Israele di usare gli aiuti come leva di pressione politica e di portare avanti una strategia di ricatto umanitario.
Il controllo degli aiuti: "umanitario" solo sotto comando israeliano
opo oltre due mesi di blocco totale, il Consiglio di sicurezza ha dato infatti il via libera alla ripresa dei rifornimenti. Ma a condizioni rigidissime: solo 60 camion al giorno potranno infatti entrare nella Striscia, e la distribuzione sarà limitata ai campi profughi. Nessuna autorità palestinese coinvolta: tutto sarà gestito da agenzie ONU o enti internazionali, e solo per chi si registra secondo le regole dettate dall'Idf. Un sistema pensato per escludere Hamas ma che, secondo le ONG umanitarie, rischia di penalizzare ampie fasce di popolazione. L'Humanitarian Country Team, che include anche le principali agenzie delle Nazioni Unite, ha denunciato il tentativo di "distruggere il sistema esistente" e imporre "un modello di distribuzione completamente subordinato all'esercito israeliano". Un approccio che, secondo l'Hct, "viola i principi fondamentali dell’assistenza umanitaria" e fa degli aiuti uno strumento di controllo bellico. Anche l'UNRWA, l' Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, in un'intervista rilasciata a Fanpage.it, ha ribadito la propria linea: "Noi abbiamo una posizione chiara, condivisa in tutto il sistema delle Nazioni Unite: siamo contrari alla cosiddetta privatizzazione degli aiuti umanitari. Lavoriamo all’interno dell'ONU e della comunità umanitaria nel rispetto dei principi umanitari, e forniamo assistenza a chi ne ha più bisogno. Questa è e resterà la nostra posizione”, ha dichiarato un portavoce dell'Agenzia. "Per noi è fondamentale raggiungere ogni persona in stato di necessità, ovunque si trovi, chiunque essa sia. Civili, ovviamente".
Indignazione globale: "È una guerra contro i civili"
Il nuovo piano israeliano ha sollevato poi critiche internazionali durissime: dalla Francia alla Cina, passando per Bruxelles, sono numerose, infatti, le voci che parlano apertamente di violazione del diritto umanitario. Il ministro degli Esteri francese Barrot lo definisce "inaccettabile". La Cina si dice "contraria alle azioni militari in corso" e chiede un ritorno al cessate il fuoco. L'ONU, attraverso il portavoce di Guterres, si dice "allarmata" dal piano che rischia di causare "una nuova ondata di morti civili". Anche Hamas avrebbe reagito: "In queste condizioni è inutile parlare di negoziati”, ha detto Bassem Naim, membro dell'ufficio politico del movimento. "Non ci sono le basi per discutere un cessate il fuoco mentre continua la guerra della fame e dello sterminio".
L'attacco contro gli Houthi
Nel frattempo, il conflitto si estende oltre i confini di Gaza: trenta jet israeliani hanno bombardato il porto yemenita di Hodeida, in risposta a un missile degli Houthi che aveva colpito l'aeroporto Ben Gurion. Secondo fonti militari israeliane, il porto è stato "completamente distrutto". Il messaggio sarebbe chiaro: "Non sarà l'ultimo attacco. I giochi sono finiti". Poche ore prima, i ribelli Houthi avevano annunciato un "blocco aereo totale" contro Israele e il portavoce Yahya Saree aveva ribadito il rifiuto dello Yemen di "sottomettersi all'aggressione israeliana". Anche l'Iran, pur prendendo le distanze formali, ha accusato Netanyahu di voler dettare legge anche alla diplomazia americana.
Tajani: "Serve una tregua, non un'occupazione"
Dal governo italiano arriva un richiamo alla de-escalation; il ministro degli Esteri Antonio Tajani avrebbe espresso forte preoccupazione per la situazione umanitaria e poi chiesto un ritorno alla proposta egiziana per il cessate il fuoco: "Siamo molto preoccupati per mamme e bambini feriti", ha dichiarato. "Chiediamo che Israele permetta l'ingresso degli aiuti e segua la strada del negoziato, non dell'occupazione".
Gaza al collasso: il 70% delle vittime sono donne e bambini
Sul terreno, la situazione umanitaria è disperata. Ospedali al collasso, interi quartieri rasi al suolo, cibo e acqua razionati. E mentre si preparano nuove operazioni militari, le organizzazioni umanitarie avvertono: la popolazione civile sta pagando il prezzo più alto. Il ministero della Salute di Gaza ha dichiarato che sono stati confermati 52.567 morti e 118.610 feriti palestinesi da quando è iniziata l'invasione di Israele sulla Striscia, nell'ottobre 2023. Si stima poi che quasi il 70% delle vittime siano donne e bambini. L'invasione che si annuncia non sarà ora un'operazione chirurgica, ma una resa dei conti. E forse, l'atto finale di una guerra che ha già oltrepassato ogni limite.