Caso Almasri, perché i giudici hanno archiviato Meloni ma non Nordio, Piantedosi e Mantovano

Ieri il Tribunale dei ministri ha archiviato le accuse a carico di Meloni, indagata per favoreggiamento e peculato nel caso Almasri, il generale libico accusato di crimini di guerra, prima arrestato e poi rilasciato e rimpatriato dalle autorità italiane lo scorso gennaio. La premier era "sicuramente informata" ma "non compare alcun dettaglio o elemento valutabile circa la portata, natura, entità e finalità dell'informazione, specie sotto il profilo della sua condivisione delle decisioni adottate", si legge nell'atto notificato ieri alla premier. Nei confronti dei ministri Nordio e Piantedosi e del sottosegretario Mantovano invece, si richiederà l'autorizzazione a procedere.
A comunicare l'archiviazione è stata la stessa Meloni, che dai suoi profili social ha contestato la decisione dei giudici definendola "assurda". La premier ha rivendicato di aver sempre preso scelte concordare con tutto l'esecutivo e che pertanto non è plausibile che non fosse stata preventivamente informata dai suoi ministri. Nel decreto, scrive la premier, "si sostiene che io ‘non sia stata preventivamente informata e (non) abbia condiviso la decisione assunta': e in tal modo non avrei rafforzato ‘il programma criminoso' ". In sostanza "si sostiene pertanto che due autorevoli Ministri e il sottosegretario da me delegato all'intelligence abbiano agito su una vicenda così seria senza aver condiviso con me le decisioni assunte". Tesi che la premier boccia completamente, rivendicando che "a differenza di qualche mio predecessore (il riferimento qui è a Giuseppe Conte e al caso della nave Diciotti), che ha preso le distanze da un suo ministro in situazioni similari, questo Governo agisce in modo coeso sotto la mia guida".
Cosa dicono le carte dell'archiviazione
I giudici che hanno richiesto l'archiviazione delle accuse nei confronti della premier hanno chiarito che non esistono prove di una sua "reale partecipazione nella fase ideativa o preparatoria del reato (…) con le attività poste in essere dagli altri concorrenti". "Gli elementi acquisiti nel corso delle indagini non consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna, limitatamente alla posizione della sola Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, tanto per il reato" di peculato quanto per quello di favoreggiamento, si legge. La premier era informata ma non esistono prove di una sua "reale partecipazione nella fase ideativa o preparatoria del reato (…) con le attività poste in essere dagli altri concorrenti".
I giudici si sono mossi sulla base delle "sommarie informazioni" fornite dal direttore dell'Aise, Giovanni Caravelli, il quale ha riferito che "la Presidente del Consiglio era stata ‘sicuramente informata'", mentre per il resto si è limitato ad esprimere una valutazione: "‘ritengo' – ha detto il capo dei servizi segreti esterni ai magistrati – sulla base di indicazioni che mi dava il sottosegretario Mantovano, che (la premier – ndr) fosse d'accordo". Secondo il Tribunale nei confronti del presidente del Consiglio "non compare alcun dettaglio o elemento valutabile circa la portata, natura, entità e finalità dell'informazione, specie sotto il profilo della sua condivisione delle decisioni adottate". Non ci sarebbero pertanto, elementi "dotati di gravità, precisione e concordanza tali da consentire di affermare in che termini e quando la Presidente del Consiglio sia stata preventivamente informata e abbia condiviso la decisione assunta in seno alle riunioni" sul caso Almasri.
Le dichiarazioni televisive rilasciate ex post dalla premier rientrano nel "piano dell'assunzione di responsabilità politica distino e retto da principi diversi da quelli propri dell'imputazione della responsabilità penale", viene chiarito. E poca rilevanza ha pure la nota delle autorità libiche, che contiene "un profondo ringraziamento" sulla vicenda Almasri, visto che "Nel linguaggio protocollare i sensi di ringraziamento di un Paese verso un altro non posso che essere espressi nei riguardi della massima autorità di governo del Paese ringraziato, a prescindere da ciò che è stato materialmente fatto e da chi ne abbia consentito la realizzazione". Insomma una formalità che non dimostrerebbe nulla.
Cosa succede ora e perché Nordio, Mantovano e Piantedosi rischiano il processo
Nei confronti dei ministri e del sottosegretario il Tribunale chiederà il rinvio a giudizio, contestando i reati di favoreggiamento e peculato nei confronti di Piantedosi e Mantovano e di favoreggiamento e omissione d'atti d'ufficio nel caso di Nordio. Per il momento nessun documento sarebbe arrivato alle Camere ma la Costituzione prevede che l'autorizzazione a procedere nei confronti del Guardasigilli sia richiesta alla Camera, in quanto ministro eletto. Diversamente, per Piantedosi e Mantovano, che non sono stati eletti l'autorizzazione verrà richiesta al Senato. Ad ogni modo, l'esito del voto appare scontato: l'esecutivo è sostenuto da una solida maggioranza in Parlamento ed è abbastanza probabile che la richiesta verrà respinta.