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Se c'è una costante che emerge con brutale chiarezza osservando le due guerre che assediano i confini morali e geografici dell'Europa — quella in Ucraina e quella a Gaza — è l'applicazione di un inequivocabile doppio standard. Non si tratta più solo di una percezione, ma di una realtà politica e burocratica che si svela nei corridoi di Bruxelles.
Il paradosso è emerso plasticamente tempo fa, quando Gabriele Nunziata, collaboratore di un'agenzia stampa è stato licenziato per aver osato porre una domanda tanto semplice quanto logica alla portavoce della Commissione Europea: "Se chiediamo alla Russia di pagare per la ricostruzione dell'Ucraina, Israele dovrebbe pagare per quella di Gaza?". Una domanda lecita, che però ha svelato l'ipocrisia di fondo.
L'ingegneria giuridica contro Mosca
Mentre si discute per una pace difficile da raggiungere e Putin dice di essere pronto alla guerra con l'Europa, sul fronte orientale la determinazione dell'Europa è ferrea. Da mesi si discute degli asset russi — beni mobili e soprattutto liquidità — congelati nei Paesi membri. L'obiettivo non è solo usarli per la ricostruzione, ma dirottarli direttamente al finanziamento dello sforzo bellico ucraino.
Il caso del Belgio è emblematico. Bruxelles detiene circa 140 miliardi di euro di fondi russi bloccati. Tuttavia, il governo belga ha finora esitato a toccarli per un timore legittimo: cosa accadrebbe se tra sei mesi, al momento del rinnovo delle sanzioni (che richiede l'unanimità), un singolo Paese vicino a Mosca — come l'Ungheria o la Slovacchia — ponesse il veto? Il Belgio si ritroverebbe esposto legalmente, costretto a restituire somme immense alla Russia.
Ed è qui che l'Europa mostra la sua creatività quando vuole colpire un nemico. Secondo quanto riportato da Politico, la Commissione sta offrendo al Belgio una via d'uscita basata sull'articolo 122 del Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea. Questa clausola, invocando lo "spirito di solidarietà", permetterebbe di scavalcare l'unanimità dei 27. In parole povere: per sbloccare i soldi russi e usarli contro Putin, si è disposti a forzare le regole decisionali, accontentandosi di una maggioranza qualificata pur di proteggere il Belgio e colpire Mosca.
Bene, che la ricostruzione dell'Ucraina la paghi la Russia.
L'intoccabilità di Tel Aviv
Se contro la Russia si mobilitano clausole oscure e ingegneria legislativa, quando lo sguardo si sposta su Israele cala il silenzio. Non esiste alcuna battaglia politica per congelare gli asset israeliani, né per vincolarli alla ricostruzione di Gaza o al sostegno di un futuro Stato palestinese. Al contrario, Israele gode di protezioni ai massimi livelli istituzionali.
I lobbisti vicini all'esercito israeliano (IDF) trovano porte aperte fino ai vertici del Parlamento Europeo. È il caso dell'incontro avvenuto nei mesi scorsi con Pina Picierno, vicepresidente del Parlamento ed esponente dell'area riformista del Partito Democratico. La motivazione ufficiale dell'incontro — e della relativa foto opportunamente diffusa — risiede nella sua delega alla lotta all'antisemitismo. Una giustificazione formale che però non cancella il dato politico: mentre si sanziona Mosca, si accolgono con tutti gli onori i rappresentanti vicini a un esercito sotto accusa internazionale.
Affari e Spyware: il business continua
Non è solo una questione di diplomazia, ma di affari. Le inchieste recenti, inclusa quella pubblicata da Fanpage.it, svelano come le trame economiche e militari tra Italia, Europa e Israele siano più solide che mai. Si parla di un mercato delle armi fiorente e dell'utilizzo di spyware di matrice israeliana da parte del governo italiano, strumenti di sorveglianza sofisticati che operano nell'ombra.
La conclusione è amara. L'Unione Europea si mostra capace di "acrobazie" legali senza precedenti per colpire economicamente la Russia, piegando persino i propri regolamenti interni. Ma quando si tratta di Israele, il diritto internazionale e la coerenza politica cedono il passo alle lobby, agli affari militari e a un'intoccabilità che rende quel "doppio standard" non un errore di percorso, ma una precisa scelta politica.