Segui Nel caso te lo fossi perso.
Ascolta la notizia più importante del giorno.

La propaganda politica funziona così. Si prende un’informazione, un elemento, e lo si plasma in modo che si inserisca alla perfezione nella propria retorica, in modo che sia funzionale a una certa narrativa, la rafforzi. È quello che sta succedendo sui centri in Albania, dopo la decisione del Consiglio Affari Interni dell’Unione europea. Il governo si intesta un cambio di rotta a Bruxelles, dice che finalmente il modello dei centri per i migranti in Albania è stato riconosciuto come il modello vincente e che, dopo oltre un anno di battaglia giudiziaria – con i giudici che non validavano i trattenimenti dei richiedenti asilo nel Paese – ora questi hub possono finalmente partire.
Ovviamente questo è un racconto che serve al governo, per ribaltare la narrazione su questi centri, i centri di Shengjin e Gjader. Dei centri che sono stati il punto centrale del programma migratorio di Giorgia Meloni e dei suoi, ma che, indubbiamente, finora non hanno funzionato. Da quando sono stati inaugurati, dall’autunno 2024, le persone migranti che avrebbero dovuto essere destinate a questi centri hanno fatto avanti e indietro tra il porto albanese e quelli italiani, perché appunto secondo i giudici non potevano essere trattenute in Paesi terzi. Poi c’è stata una sorta di cambio di destinazione d’uso, un centro è diventato un Cpr, un centro per il rimpatrio e da qualche mese lì vengono trasferite le persone in attesa di essere rimpatriate.
Però lo sappiamo, i rimpatri vanno a singhiozzo. E così finisce che o le persone devono essere riportate in Italia, perché manca una convalida di questi provvedimenti, oppure che aspettano in Albania una decisione già presa in Italia. Di fatto, si aggiunge una tappa nel rientro al Paese di origine, però non si rivoluziona la gestione migratoria. E questi sono dati di fatto, con cui il governo deve in qualche modo misurarsi.
Le novità a livello europeo: rimpatri e Paesi sicuri
Ecco perché, al via libera del nuovo regolamento sui rimpatri e dell’aggiornamento della lista dei Paesi sicuri, il governo non ha perso tempo e si è intestato una vittoria. Prima di vedere perché le cose sono un po’ più complesse di come vengono dipinte, però, capiamo cosa è successo a Bruxelles.
Partiamo proprio dai rimpatri, che è il tema su cui Meloni, Piantedosi & co. rivendicano maggiormente il successo del modello Albania. Il nuovo regolamento dice che se una persona è arrivata nell’Unione europea passando attraverso un Paese considerato sicuro, può essere respinta subito, perché avrebbe dovuto chiedere protezione proprio in quel Paese di transito. Non solo: si pensa anche ad istituire dei centri di procedure e rimpatrio – i cosiddetti return hub – proprio in Paesi terzi. Come l’Italia sta provando a fare in Albania, insomma, come i Paesi Bassi vorrebbero fare in Uganda, la Danimarca forse in Montenegro, e così via.
Invece, sui Paesi sicuri. I ministri dell’Interno europei hanno approvato un ampliamento della lista, includendo anche Paesi come il Bangladesh, la Colombia, l’Egitto, l’India, il Kosovo, il Marocco e la Tunisia.
All’Italia ovviamente fa comodo. Moltissimi dei richiedenti asilo che sbarcano sulle nostre coste sono partiti proprio dalla Tunisia e questo consentirebbe di rifiutarli immediatamente e rispedirli nel Paese di Kais Saied, dove dovrebbero essere portare a termine tutte le procedure. E qui inizia a emergere qualche problemino. I ministri europei possono anche includere la Tunisia nella lista dei Paesi sicuri, ma per un migrante subsahariano non lo è.
In questi anni sono arrivate moltissime testimonianze e denunce di violenze contro le persone migranti in Tunisia. Le politiche razziste di Saied hanno portato a raid nelle città, una vera e propria caccia alle persone nere e provenienti dall’Africa subsahariana, all’abbandono dei migranti nel deserto ai confini con la Libia e con la Tunisia, senza cibo né acqua, lasciati lì a morire.
Tutti i nodi
Ecco, è questo un Paese sicuro per l’Unione europea? Magari per me lo è anche, ma per una persona migrante, che arriva dal Sahel, lo è altrettanto? La risposta ovviamente è no, e bisogna sempre considerare che nella valutazione di una richiesta d’asilo bisogna considerare se il Paese d’origine sia sicuro per la persona che presenta la domanda, non in generale. Ma al netto di questo, è chiaro che la direzione a cui sta puntando l’Unione europea da diversi anni ormai è quella dell’esternalizzazione delle frontiere, dall’appalto ad altri Paesi della gestione dei flussi migratori, che questo sia a scapito della tutela dei diritti umani poco importa.
Su questo il governo Meloni ha ragione. L’approccio è cambiato: non è più basato sull’accoglienza, sulla solidarietà, ma su una gestione securitaria, che tratta le migrazioni come un tema di sicurezza interna, di ordine pubblico, di pura logistica. E che quindi non si fa scrupoli a lasciare delle persone vulnerabili in balia di procedure che non sono minimamente comparabili agli standard europei. Almeno in teoria, nella pratica sappiamo bene che anche nei nostri Paesi i Cpr e i centri di accoglienza sono spesso luoghi dove la dignità umana è qualcosa di sconosciuto.
Ma sicuramente esaminare una richiesta di asilo in Italia non è la stessa cosa che farlo in Tunisia, o in Egitto, dove le persone vengono arbitrariamente detenute e dove lo spazio dei diritti civili è sempre più ristretto. O anche, in Bangladesh, da dove provengono moltissime delle persone che sbarcano in Italia, e che sappiamo essere un Paese teatro di persecuzioni religiose e politiche.
La svolta sovranista
Insomma, sicuramente il governo Meloni può rivendicare un ruolo in questa svolta sovranista dell’Unione europea, anche in tema di politiche migratorie. Però da qui a parlare di svolta e di successo imminente per i centri in Albania, la strada è lunga.
In primis perché il Consiglio Affari Interni non fa le regole. I ministri hanno approvato quella che è la loro posizione negoziale, che poi dovranno confrontare nei cosiddetti triloghi, cioè nelle trattative con il Parlamento e con la Commissione europea. E va anche detto che sebbene la maggioranza politica sia verso destra, comunque anche in Consiglio non erano tutti d’accordo: la Spagna, la Grecia, la Francia e il Portogallo hanno votato contro. E questo sicuramente peserà nei negoziati con il Parlamento.
In un’intervista con il Messaggero oggi il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, ha detto che la linea italiana è stata sposata a pieno a livello europeo e che quindi ora confida che i centri in Albania – in questo momento solo parzialmente funzionanti, proprio a causa dei vari procedimenti giudiziari – potranno entrare a regime. Vedremo, ma non possiamo escludere una nuova stagione di ricorsi. Perché al di là di tutte le cornici normative, va sempre valutata la situazione caso per caso. E i giudici, di tanto in tanto, potrebbero avere qualcosa da ridire.
L’unica certezza che abbiamo è che questi centri ci sono costati e continuano a costarci un sacco di soldi. Gli oltre 70 milioni per allestire le strutture, circa 2 milioni e mezzo all’anno di spese accessorie per i carabinieri e i militari della Marina che ci lavorano, vitto e alloggio per il personale. Secondo un rapporto di ActionAid i centri in Albania costano molto di più di un centro per il rimpatrio in Italia. Vi dò un numero: oltre 100 mila euro per qualche giorno di attività nel 2024, circa 18 volte in più di quanto avremmo speso in Italia. Sicuramenta mancano ancora tanti dati, ma parlare di svolta e di grande successo forse è un po’ affrettato.
Se questo contenuto ti è piaciuto, clicca su "segui" per non perderti i prossimi episodi.
Se vuoi accedere ad altri contenuti esclusivi e sostenere il nostro lavoro, abbonati a Fanpage.it!