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Perché è importante riconoscere lo Stato di Palestina all’Assemblea dell’Onu

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Questa settimana a New York è in corso l’ottantesima Assemblea generale delle Nazioni Unite, che avviene forse in uno dei momenti più difficili per l’ONU. Perché con un genocidio in corso in Medio Oriente, un conflitto in Ucraina che ha ridisegnato il mondo in blocchi, una guerra commerciale che ha stravolto i rapporti diplomatici a livello globale, la marginalità e la debolezza della comunità internazionale si fanno sentire.

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Ecco, questa è l’Assemblea che si troverà anche a discutere del riconoscimento dello Stato di Palestina. Un fronte su cui nelle ultime settimane c’è stata un’accelerata, con diversi Paesi occidentali che hanno annunciato di volerlo fare. Chiariamolo: la stragrande maggioranza, se non quasi la totalità, dei Paesi del cosiddetto Sud Globale riconosce da tempo che esiste uno Stato palestinese. A mancare erano i Paesi occidentali: però nelle ultime settimane Francia, Gran Bretagna, Canada e molti altri hanno deciso di invertire la rotta.

A guidare la sessione sulla Palestina sono la Francia e l’Arabia Saudita. Proprio il presidente francese, Emmanuel Macron, dando il via ai lavori ha detto: ”Alcuni diranno che è troppo tardi, altri diranno che è troppo presto, ma una cosa è certa: non possiamo più attendere”. Tra quelli per cui è troppo presto c’è anche l’Italia di Giorgia Meloni, per cui una scelta di questo tipo significherebbe solo legittimare Hamas.

Per Macron è tutto il contrario, questo riconoscimento significherebbe una sconfitta per Hamas. Sia chiaro: nessuno dei Paesi occidentali che si sta finalmente muovendo per riconoscere lo Stato palestinese vuole vedere in Hamas il proprio interlocutore. E nessuno pensa che riconoscendo la Palestina come Stato si porrà fine al massacro dall’oggi al domani.

Le cose sono ovviamente molto più complesse: stiamo parlando di un territorio e di un popolo martoriati da decenni di apartheid e da due anni di massacro. Nella Striscia di Gaza le infrastrutture sono state rase al suolo, la popolazione è sfollata e l’enclave è assediata. In Cisgiordania l’Autorità Nazionale palestinese è debolissima, delegittimita, e le colonie israeliane continuano ad espandersi nell’impunità più totale, occupando illegalmente sempre più territorio. È chiaro che non sarà un’autorità statale riconosciuta sulla carta a risolvere un conflitto del genere. Però è un atto politico importante, denso di significato. Che serve a mettere pressione al governo israeliano, isolandolo, rinnovando l’impegno verso la soluzione dei due Stati. Una soluzione che Benjamin Netanyahu ora rifiuta esplicitamente, non si nasconde nemmeno più e ammette che non permetterà mai uno Stato palestinese.

Di fronte a tutto questo sempre più Paesi occidentali si stanno allineando al resto del mondo e stanno riconoscendo formalmente uno Stato di Palestina. E questo vorrebbe dire un posto ufficiale negli organismi internazionali, come appunto le Nazioni Unite dove finora la Palestina è presente solo come osservatore, senza i diritti che spettano a tutti i Paesi membri. Chiaramente tutto questo non basta. E non ha nemmeno senso se lo pensiamo unicamente come gesto simbolico. No, deve essere un atto politico e questo dovrebbe comportare tutta una serie di conseguenze.

Perché riconoscere lo Stato di Palestina vuol dire riconoscere formalmente l’apartheid in essere da decenni in quei territori, vuol dire riconoscere che l’occupazione israeliana è rimasta impunita per tutto questo tempo, che non c’è mai stata giustizia di fronte alle violazioni dei diritti umani ai danni del popolo palestinese. Fare tutto questo è molto più radicale e complesso di una dichiarazione di intenti, dell’aprire un’ambasciata o un consolato e iniziare dei rapporti diplomatici.

Ma attenzione, non sono questi i motivi per cui il governo di Giorgia Meloni è contrario a uno Stato palestinese. Il punto che anche in queste ore il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, ha sottolineato da New York, è che riconoscere ora un’entità statale in Palestina vorrebbe dire legittimare in qualche modo Hamas che invece non può avere futuro a Gaza. In altre parole, prima si costruisce uno Stato e poi lo si riconosce.

Qui ci sono da dire tre cose. La prima, che ripetiamo, è che nessun Paese europeo sta immaginando un futuro palestinese segnato da Hamas, che tra l’altro è una contraddizione vivente all’idea dei due Stati. Seconda cosa: non è chiaro come, in questo processo di costruzione dello Stato di cui parla il governo italiano, sia riconosciuto il popolo palestinese, le sue volontà e il suo diritto all’autodeterminazione. Questo non è un fattore che può essere ignorato, perché sostituire un protettorato a delle colonie illegali non può certamente essere la soluzione. E infine, terzo punto: anche se non sarà risolutivo, riconoscere lo Stato palestinese adesso – mentre è in corso l’offensiva finale a Gaza e mentre i nuovi progetti coloniali israeliani puntano a tagliare in due la Cisgiordania – è fondamentale. Perché vuol dire non arrendersi di fronte a un governo, quello di Netanyahu, che vuole dare il colpo di grazia a ogni prospettiva di uno Stato di Palestina, alla possibilità per il popolo palestinese di vivere nella propria terra.

Se il governo di Giorgia Meloni non comprenderà questo, rimanendo invece saldamente ancorato alla linea di Donald Trump, che non ci pensa due volte alla possibilità di uno Stato palestinese e continua a sostenere senza se e senza ma Netanyahu – rischia di rimanere isolato in Europa. C’è poi una questione interna. Perché mentre Meloni svia ed evita di esporsi sulla questione palestinese, così come sulle sanzioni a Israele, le piazze italiane parlano chiaro. Ieri c’è stato uno sciopero politico come non se ne vedevano da decenni: decine di piazze, centinaia di migliaia di persone, una mobilitazione collettiva per far sentire da un lato al popolo palestinese che non l’abbiamo abbandonato e, dall’altro lato, al nostro governo che non cedremo all’immobilismo e all’apatia di fronte a un genocidio.

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