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Ciao,
oggi la newsletter avrebbe dovuto avere un altro focus, ma le motivazioni della sentenza nei confronti dell’ex marito di Lucia Regna dicono cose talmente gravi che non possono cadere nel vuoto.
Non “un accesso d’ira immotivato”, ma “uno sfogo riconducibile alla logica delle relazioni umane”. Questo avrebbe portato, secondo i giudici del tribunale di Torino, al pestaggio di sette minuti nei confronti di Lucia Regna. Uno “sfogo” che oggi si conta in 21 placche di titanio che le tengono il volto, oltre a un nervo oculare lesionato. D’altra parte, la donna avrebbe “sfaldato un matrimonio ventennale”, con un linguaggio “brutale”. Mentre le frasi, riportate su La Stampa, che lui le ha urlato contro – “puttana”, “ti ammazzo”, “non vali niente” – sono “da calare nel contesto della dissoluzione della comunità domestica, umanamente comprensibile”. L’ex marito, dal quale lei si era separata proprio perché sottoposta ad anni di violenze, è stato assolto dall’accusa di maltrattamenti in famiglia e condannato per lesioni. La pubblica ministera Barbara Badellino aveva chiesto quattro anni e mezzo di reclusione. Il giudice ha comminato un anno e sei mesi, che non sconterà per la sospensione condizionale della pena.
Ci tengo a dire immediatamente una cosa: il punto non è se quest’uomo andrà in carcere o meno, e non staremo a dire se la sentenza “è troppo leggera” o se “doveva essere più pesante”. Se avete un po’ di familiarità con questa newsletter, sapete quello che penso del carcere: ossia che non è la soluzione alla violenza di genere. Che l’uomo vada in galera per un anno, o quattro, poco cambia se non si agisce alla base dei meccanismi che permettono il consolidarsi e il tramandarsi della violenza e della disuguaglianza. Detto questo, le parole del giudice sono inaccettabili, figlie di una cultura che riconosce all’unità familiare composta da uomo e donna un valore superiore alle esigenze della vittima, a tal punto da giustificare reazioni violente nel caso di una sua repentina messa in discussione. Nessuna riflessione da parte dei giudici sul fatto che proprio quelle frasi urlate dall’aggressore siano la prova di un rapporto evidentemente violento, da cui la donna voleva fuggire. Nessun riconoscimento dei suoi bisogni, posti in secondo piano rispetto a quelli della controparte maschile, interessata a preservare la ‘famiglia’ di cui si sentiva proprietario. Sono esattamente sottotesti come questi che rappresentano l’uomo come detentore del potere di controllo e dominio, e la donna come una figura subalterna, che se va a intaccare quel potere può suscitare una reazione violenta. Ed essere punita.
Le parole del giudice sono gravi non solo perché sono offensive nei confronti di Regna. Ma perché si pongono in connessione con l’aggressore, con l’autore di una violenza efferata, che viene giustificata sulla base della rottura ‘brutale’ di un’unione. La violenza sistemica patriarcale viene così ricondotta e mascherata come un conflitto privato, mentre la violenza domestica viene normalizzata perché direttamente legata alla relazione tra marito e moglie. Insulti e minacce come “puttana non vali niente” e “ti ammazzo” non sono viste come un’aggressione, non sono riconosciute come violenza verbale, ma ricondotte a sfogo davanti a un fantomatico torto subito. La violenza maschile, ancora una volta, viene vista come naturale e comprensibile perché innescata dalla violazione di una presunta unità naturale, mentre l’insubordinazione femminile no.
In un’intervista rilasciata a La Stampa, Lucia Regna aveva dichiarato: “Perché ci dicono di denunciare se poi quello che viene dopo, da parte dello Stato, è uno schiaffo morale che fa più male delle botte? A cosa serve il Codice rosso? A niente. lo mi sono pentita di averlo denunciato. Adesso può continuare a fare del male. A me. O alla prossima”.
La vittimizzazione secondaria, nelle aule giudiziarie di questo Paese, è purtroppo una realtà. Lo spostamento dell’attenzione dall’aggressore alla vittima, è un meccanismo che porta a colpevolizzare la donna, che viene vista come “quella che se l’è cercata”. I suoi comportamenti sono analizzati nel dettaglio, la sua vita scandagliata alla ricerca di passi falsi che possano minarne la credibilità. Non è un caso che molte donne decidano di non denunciare a causa proprio della violenza istituzionale cui rischiano di andare incontro.
I continui inviti da parte delle autorità politiche e giudiziarie ad andare a denunciare non contano nulla se poi i risultati sono sentenze come questa. Senza scardinare la struttura di una società machista e patriarcale che empatizza con gli uomini e stigmatizza le donne, continueremo ad avere donne che non denunciano e uomini che percepiscono la comunità domestica come spazio inviolabile, perché questo dicono le stesse sentenze. I commenti indignati dei politici dell’ultima ora non contano nulla se poi continuano a portare avanti politiche che difendono la mascolinità tradizionale assurgendola a valore. Sono i ‘valori della società tradizionale’ che portano a sentenze come questa: dobbiamo distruggerli, non perpetrarli.
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