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Ciao, oggi su Streghe affronto un tema molto delicato: il suicidio in carcere di Stefano Argentino, il femminicida di Sara Campanella. Se anche tu hai gioito per la sua morte, dedicami cinque minuti: questa Newsletter è soprattutto per te.
“Gli italiani sono contenti”. “Ecco queste sono le belle notizie così non paghiamo per mantenerlo in carcere”. “Giustizia ora è fatta”. “Ha aspettato anche troppo”. Quelli che leggi, carә lettorә, sono solo alcuni dei commenti alla notizia del suicidio in carcere di Stefano Argentino, il femminicida di Sara Campanella. Il 27enne si è ucciso nella sua cella, due settimane dopo che la sorveglianza su di lui era stata ridotta. A giugno il giudice per le indagini preliminari aveva negato la perizia psichiatrica: una decisione che il suo avvocato, Giuseppe Cultrera, aveva definito ‘inspiegabile’, soprattutto alla luce del fatto che Argentino più volte aveva manifestato l’intenzione di togliersi la vita.
Le reazioni violente di fronte a crimini efferati non sono una novità. Ogni volta che si verifica un atto particolarmente atroce, si leggono commenti e auguri di morte, tortura e stupro per chi lo ha commesso. Pertanto, le reazioni al suicidio in carcere di Stefano Argentino non sorprendono, ma non devono essere considerate la normalità. La morte di un femminicida, per quanto odioso sia stato il suo crimine, non risolve il problema della violenza contro le donne. La sua scomparsa non pone fine alle disuguaglianza di genere e allo squilibrio delle relazioni di potere. Non è così semplice. Tendiamo a credere di essere al di sopra di tutto questo, ma è un'illusione: siamo tutte e tutti coinvolti.
Se c’è una cosa che negli anni ho imparato da collettivi e movimenti, è che la rabbia è sana. Ma va incanalata. È sano ed è giusto provare rabbia per il femminicidio di Sara Campanella, è sano ed è giusto essere arrabbiate per ogni donna la cui vita sia spezzata per mano di un uomo, è sano ed è giusto provare rabbia nei confronti di chi violenta, uccide e cerca di cancellare l’esistenza dell’altrә. Ma ciò che va sovvertito con tutte le nostre forze è il sistema patriarcale alla base della nostra società che permette tutto questo. Se non andiamo alle radici del problema, le cose non cambieranno. E continueranno a esserci altri Stefano Argentino, altri Filippo Turetta, altri Alessandro Impagnatiello. Non è facile per me scrivere queste cose: la rabbia e la voglia di bruciare tutto ce l’ho anche io di fronte alle vite interrotte di queste donne. Ma non è cancellando gli uomini che le cose cambieranno: è sovvertendo il sistema.
Per questa nuova puntata di Streghe ho parlato con due donne che da molto tempo si occupano di questi temi. Caterina Peroni, ricercatrice, coordinatrice del modulo ‘Criminologie femministe’ del Master in Criminologia Critica presso l’Università di Padova e attivista del collettivo transfemminista e antipunitivista Micc3. E Giusi Palomba, attivista, facilitatrice comunitaria e autrice del libro ‘La trama alternativa – Sogni e pratiche di giustizia trasformativa contro la violenza di genere’. Palomba cura anche una newsletter sul tema, si chiama proprio ‘trame alternative' e la trovate qui.
Per Palomba, “il suicidio di Stefano Argentino è una sconfitta per il sistema penitenziario e per lo Stato, che dovrebbero garantire la sicurezza e i diritti fondamentali anche delle persone detenute. I femminicidi sono solo l’ultimo e più evidente pezzo di una escalation di comportamenti problematici, nonostante le lotte femministe storiche e contemporanee, la divulgazione e l’impegno di tant*, provino da sempre a renderlo palese. Questo perché manca una consapevolezza condivisa a livello culturale e politico di cosa sia il patriarcato e della violenza che provoca. Un suicidio in carcere non va nella direzione di questa presa di consapevolezza, è chiaro, serve un lavoro di lungo respiro, fatto di educazione, prevenzione, e sostegno concreto alle realtà che da sempre lavorano su questo problema. Lo ripetiamo fino allo sfinimento, ma aggiungo un elemento che ritengo cruciale, e cioè che, al momento, sentirei urgente una riflessione sugli strumenti e le capacità necessarie per lavorare con i materiali emotivi complessi che questa epoca sta producendo”.
Per quanto riguarda le reazioni al suicidio di Argentino, Peroni spiega che “sono state molto simili a quelle che si sono avute quando è stato dato l’ergastolo a Turetta. Diciamo che in generale ci sono reazioni sociali estremamente violente a fatti di sangue, con richieste di pene più alte, di ergastolo, di ‘buttare la chiave’, di incitamento al suicidio, che sono parte di una vulgata di populismo violento che sta prendendo piede in Italia – ma non solo – e che sta colpendo la politica, la società, la cultura. Questo populismo penale, si fonda sulla costruzione continua di allarmi sociali e panico morale contro un nemico pubblico, sempre qualcun altro – quasi sempre l’immigrato, ma ora anche il femminicida nostrano, su cui si individualizzano tutte le colpe. Il nemico pubblico è un pericolo per tutta la società, e quindi va semplicemente eliminato. Questa vulgata iperpopulista, violenta, di pancia, ci dà conto di due elementi fondamentali. Il primo è una disculturazione, una forma di ignoranza sempre più profonda rispetto ai processi sociali, alle responsabilità, ai meccanismi che portano alla commissione di reati come la violenza di genere e i femminicidi. La seconda è la semplificazione, ossia il fatto di non voler affrontare la complessità dei fenomeni, delle relazioni di potere, le cause sociali e soggettive che sottendono alla violenza. Limitarsi a individualizzare il femminicidio, la violenza di genere, esclusivamente su chi in quel momento commette quell’atto, significa cercare un capro espiatorio per le responsabilità collettive, sociali e istituzionali che riproducono diseguaglianze, gerarchie e violenza”.
C’è un tema fondamentale che ho accennato prima: ed è quello della rabbia, che non può essere ignorata. “Da femminista anticarceraria – spiega Palomba – è difficile avere a che fare con la rabbia che scaturisce dalla violenza di genere, ma non nel senso che si pensa di solito e cioè che la rabbia vada soppressa o non debba far parte di un discorso femminista. Consideriamo lo scenario: ci ritroviamo a consumare notizie atroci, a un ritmo orribile, spesso in solitudine. Le reazioni sui social sono sempre più cattive e violente, è vero, ma sono anche l’effetto di una società sempre più individualizzata, di un trattamento morboso delle notizie, di una cronaca trattata in modo spettacolare. Negli spazi digitali si esprime rabbia, e all’estremo anche desiderio di vendetta, si desidera la morte violenta per chi la violenza l’ha inflitta, certo, ma il problema, a mio avviso, non è il desiderio di vendetta in sé, per quanto irricevibile. Il problema, e qui rispondo a partire dall’esperienza da facilitatrice, è più spesso l’impossibilità di esprimerlo in contesti che diano un senso a ciò che si prova, tra riferimenti politici, e di poterlo trasformare in risposte generative e risorse collettive. Il rischio, e anche l’epilogo più frequente, è che questa espressione ‘alienata' della vendetta diventi pane per i denti di governi di estrema destra, argilla in mano alle politica punitive e securitarie più repressive, proprio come accade in Italia col governo Meloni”.
Anche per Peroni, “abbiamo un governo marcatamente di destra che approfitta della rabbia sociale per le violenze maschili per approvare solo norme securitarie, con aumento di pene e moltiplicazione dei reati. A cosa serve? A dare la parvenza di fare qualcosa e rispondere a un'emergenza con ‘tolleranza zero', mentre ormai tutte le ricerche sul tema hanno dimostrato che a) il carcere non serve a nulla se non a riprodurre violenza e b) maggiori pene e reati non hanno alcun effetto di deterrenza. Non servono a nulla e fanno solo ulteriori danni, a chi ha ha agito la violenza, alle famiglie, e spesso alle sopravvissute. Ovviamente invece servirebbe, come chiedono le associazioni di centri antiviolenza e i movimenti femministi, intervenire in un’ottica preventiva, ponendo le basi per rovesciare i presupposti culturali e contrastare la violenza prima che avvenga, non dopo. Il disegno di legge sul femminicidio presentato dalla ministra Roccella va esattamente in questa direzione: noi ci deresponsabilizziamo completamente e schiacciamo tutto questo fenomeno solo sul lato della punizione e della repressione. A proposito di semplificazione, questa è la più facile e anche la più dannosa”.
Il carcere, l’isolamento del soggetto, non sono mai state considerate risposte sufficienti dal movimento femminista. Anzi. Chi passa anni dietro le sbarre, con minimi contatti con l’esterno, e nessuna forma di supporto emotivo e psicologico non esce migliorato e pronto a una nuova vita. Esce arrabbiato e provato mentalmente, e sicuramente non con una visione più progressista sul lato dei rapporti di potere e tra i generi. Qual è, dunque, il percorso da seguire?
“Non è semplice capire come stare in questa complessità – dice Peroni – Nel caso degli uomini che agiscono violenza, può essere affrontata da diversi punti di vista. Esistono per esempio i programmi per autori di violenza che mirano proprio alla responsabilizzazione e alla consapevolezza soggettiva rispetto a ciò che hanno fatto. Anche se in base ai nuovi codici rossi (non a caso, interventi che spingono solo su repressione e aumento delle pene) i programmi sono sempre più inseriti nei percorsi penali, la responsabilità qui non è intesa in termini penali: il soggetto che ha commesso violenza deve riconoscere il danno causato alla sopravvissuta, comprendere cosa l'abbia spinto ad agire, e cambiare attitudine nei confronti dei rapporti di genere, del ruolo della maschilità ecc, perché il cambiamento dev'essere l’obiettivo. Se come femministe pensiamo che la violenza sia generata nel contesto sociale e culturale patriarcale, e che sia una scelta consapevole e non una patologia, allora possiamo e dobbiamo pensare che anche i soggetti che la commettono possono cambiare, così come la società in cui sono inseriti. I processi di trasformazione sono faticosi, richiedono competenze e un investimento importante, anche in termini di protezione delle sopravvissute. Più in generale, dobbiamo immaginarci un'idea di giustizia che non sia la giustizia penale, ma trasformativa, una giustizia cioè in grado di trasformare i rapporti di potere che producono queste violenze. E inserire chi le ha commesse all’interno di un percorso di mutamento che coinvolge tutto: relazioni familiari, amicali, lavorative, istituzioni, società. Perché dove c’è violenza non ci sono solo due soggetti in gioco come afferma il diritto penale, ossia l’autore e la vittima, ma c’è il contesto, le persone che la vedono e non fanno nulla, gli operatori che non la riconoscono, I familiari che non sanno cosa fare, la cultura, le istituzioni che non sanno dare risposte adeguate, le ingiustizie che permangono”.
“Nell’impossibilità di mettere in pratica, oggi come oggi, percorsi di rieducazione che partano dal sapere femminista, e prendano in carico la natura sistemica della violenza di genere, preferisco occuparmi di prevenzione e chiedermi: come evitiamo la violenza di domani? – conclude Palomba -. Spesso si tratta di intervenire sul molto piccolo e concreto, anche se con obiettivi a lungo termine. Chi menziona atteggiamenti discriminatori o violenti, quelli minimi, del quotidiano, viene spesso accusata di esagerare. Lo sanno bene le donne e i tutti soggetti che portano con sé un dissenso. Le statistiche ci mostrano inoltre che molti giovani uomini, esposti in maniera cronica ad ambienti online misogini (la cosiddetta manosfera) stanno diventando più conservatori delle generazioni dei loro nonni. Questi sono solo alcuni esempi dei ‘luoghi’ del quotidiano dove c’è il vero lavoro da fare, molto prima dei femminicidi, dei transcidi, dei crimini violenti. Potremmo occuparci di questo, nell’immediato, in maniera concreta ed efficace, ed è una prospettiva con cui, perlomeno per me, è più sostenibile fare i conti”.
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