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Oggi parliamo di un tema molto delicato: delle donne che uccidono i propri figli. Non per giustificare, ma per provare a porre l’accento su un tema troppo spesso sottovalutato: quello del contesto sociale in cui sono inserite, a cui nessuno fa caso fino a che non è troppo tardi.
La scorsa settimana ha destato molto scalpore l’arresto di una ragazza di 25 anni a Reggio Calabria, accusata di aver partorito e poi soffocato i due gemelli subito dopo la nascita. I fatti risalgono a luglio 2024, ma sono stati resi noti solo ora. Non è escluso, inoltre, che la giovane, forse insieme al fidanzato, abbia ucciso anche un altro neonato avuto nel 2022: nelle chat con il ragazzo si parla infatti di una gravidanza arrivata alla fine, ma quel bambino nessuno lo ha mai visto.
La vicenda richiama alla mente quella della 22enne di Traversetolo, accusata di aver ucciso i neonati a distanza di un anno uno dall’altro. In entrambi i casi, la giovane aveva tenuto nascoste le gravidanze, e aveva partorito nel bagno di casa, senza dire nulla a nessuno.
Queste sono le vicende più note, ma esistono anche altri casi, più o meno conosciuti, in cui una donna ha ucciso i propri figli subito dopo il parto. Si tratta di casi che impressionano moltissimo l’opinione pubblica, suscitando reazioni anche molto forti data la loro efferatezza. Ed è normale che sia così: i neonati non hanno difese, e l’amore che suscitano rende questi gesti impossibili da accettare. Strapparli alla vita è forse una delle cose peggiori che un essere umano possa fare. È doloroso anche solo immaginare una cosa del genere.
Vogliamo però provare ad andare oltre la cronaca per capire cosa può scattare nella mente delle persone che compiono atti simili, e cosa può portare una donna a compiere questi gesti. Non per giustificare, ma per capire insieme come far sì che non accada mai più. Per andare oltre gli insulti e il bisogno di trovare mostri da additare.
Ho parlato con Margherita Carlini, criminologa e psicoterapeuta che da anni lavora nei centri antiviolenza e con le donne vittime di violenza di genere. Carlini mi ha spiegato che innanzitutto “c’è una distinzione importante da fare in base all’età. Questo ha un’incidenza notevole, perché il rischio che un genitore, soprattutto una madre, arrivi a uccidere un figlio è maggiore nei primi periodi di vita, quando il legame affettivo ed emotivo non si è ancora costruito. E questo è anche una dimostrazione del fatto che il cosiddetto ‘istinto materno’ non esiste”. Non a caso, aggiunge Carlini, “i primi mesi sono i più critici per la madre, perché è la fase di adattamento: deve prendere le misure, costruire un legame emotivo oltre che fisico, ed è anche il periodo più faticoso per il bimbo e per la donna”.
Ed è qui che bisogna prestare particolare attenzione. “Quando i neonati vengono uccisi in fase post-partum, molto spesso c’è una correlazione con una gravidanza non voluta o negata. Quando si parla di infanticidi ci sono tante tipologie, ma spesso ci troviamo davanti a una narrazione stereotipata. È chiaro che è un crimine tremendo, e quindi la prima reazione è pensare che la madre debba per forza essere psichiatrica, in uno stato di totale incapacità. In realtà, gli studi dimostrano che non sempre è così: non tutte le madri che uccidono i figli hanno una patologia psichiatrica. Spesso invece la patologia è più del sistema all’interno del quale la madre è inserita”. Ciò a cui si riferisce Carlini è il contesto sociale che circonda la donna, molto spesso non solo sottovalutato, ma ignorato in questi casi. “C’è ancora un’enorme idealizzazione della maternità. Si dà per scontato che tutto sia bello e naturale, che tu ti senta sempre bene, che provi subito un amore istintivo. Ma non è così. Le difficoltà oggettive non vengono viste. Se poi una madre è sola, senza rete familiare, e l’uomo continua la sua vita lavorativa, lei rimane da sola con stanchezza, dubbi e paure. Tutto questo incide tantissimo, ma difficilmente viene considerato”.
Una delle reazioni più comuni di fronte a una donna che uccide un figlio appena nato è quella di chiedersi come mai non abbia abortito quando poteva farlo. Bisogna però pensare a quanto l’interruzione di gravidanza sia fortemente stigmatizzata nel nostro Paese: è complicato abortire nelle grandi città, figuriamoci nei piccoli comuni, dove tutti si conoscono. Si tratta di ostacoli che, seppur non insormontabili, possono sembrare enormi a una persona senza reti sociali di supporto. E, infatti, Carlini fa proprio questo esempio: “Pensa a una ragazza giovane, che vive in un piccolo paese, si trova incinta e non sa a chi rivolgersi. Il consultorio? Sì, ma chi ci lavora lì? Chi incontri? Come vieni accolta? Vai al consultorio, ma magari chi ci lavora conosce te o la tua famiglia. Dov’è l’anonimato? A livello sociale, psicologico e anche pratico, ci sono moltissimi ostacoli. Il caso Petrolini, per esempio, riguarda una donna di un piccolo paese del Nord, con una famiglia molto attenta al giudizio esterno. È chiaro che anche questo può pesare. Quanto può una ragazza in uno stato di gravidanza parlare del desiderio di non voler portare avanti quella gestazione, senza ricevere un giudizio morale, familiare o sociale? Anche l’obiezione di coscienza incide. Vai lì, vuoi abortire, ma ti dicono di aspettare una settimana, di pensarci, ti scoraggiano. Tutto questo, in un contesto già fragile, pesa tantissimo”.
“Se guardi le classificazioni di questi casi, le ‘madri assassine’ vengono divise per motivazione: chi uccide per eventi stressanti, chi per pietas — cioè come suicidio cosiddetto ‘altruistico’ —, chi per un figlio indesiderato, chi per disturbi di personalità, chi per vendetta contro il partner, e così via. Ma queste categorie si concentrano sempre sulle caratteristiche psicologiche, mentre quelle sociali vengono trascurate. E invece oggi dovrebbero essere considerate molto di più”. Ed è soprattutto il periodo dopo il parto a non essere considerato, quando invece dovrebbe essere attenzionato dalla rete esterna della donna. “Ci sono anche casi in cui la madre soffre di depressione post-partum o di episodi psicotici, ma spesso i segnali vengono sottovalutati. Si tende a dire ‘sarai solo stanca’, ‘passerà’, ‘è normale’. E così si perdono occasioni per intervenire. Questo accade anche perché c’è ancora l’idea che una madre, in quanto tale, sia immune da certe fragilità. Come se l’essere madre ti rendesse automaticamente capace, stabile, affettuosa. Ma non è così. L’istinto materno è un mito, una costruzione culturale, non un dato biologico. E i dati lo dimostrano: i bambini sono più a rischio proprio nei primi mesi di vita, quando quel legame emotivo non è ancora formato”.
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Natascia Grbic