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Pamela Genini e Anna Ronchi
Pamela Genini e Anna Ronchi

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mentre scriviamo le donne continuano a morire: Pamela Genini e Luciana Ronchi sono le ultime due vittime di femminicidio, ma se le cose non cominceranno a cambiare i loro nomi non saranno gli ultimi.

Molto spesso, e sarà successo pure a te, incappo in qualche fenomeno che se ne esce con frasi del tipo: “Ma non ha senso parlare di femminicidi, la violenza è violenza, allora per gli uomini io voglio parlare di maschicidi!”. Commenti cretini che in un mondo sensato non meriterebbero risposta. Ma, visto che siamo nel nostro, e che questo patriarcato prima o poi vogliamo farlo crollare, siamo costrette pure ad argomentare e a mettere in crisi la fallacia di queste esternazioni. Certo è che siamo stanche. Specialmente perché le donne continuano a morire, uccise da uomini violenti che non vogliono accettare la loro autodeterminazione. E continuerà a succedere se le cose non cominceranno a cambiare, se non ci liberiamo dagli stereotipi, e da una cultura machista che ancora oggi viene normalizzata e legittimata da società e istituzioni.

A morire sono le donne, ma il dito continua a essere puntato contro di loro. Sono loro a finire al centro delle narrazioni morbose, sotto la lente impietosa dei giudizi: si analizzano le loro vite, le loro scelte, si mettono in discussione i loro comportamenti. Ci si chiede perché siano rimaste accanto a uomini violenti, perché non abbiano denunciato prima. Ma la narrazione va capovolta: la domanda non è perché non abbiano denunciato, bensì perché chi avrebbe dovuto vedere, ascoltare e intervenire non lo ha fatto.

Pamela Genini, prima di essere uccisa da Gianluca Soncin, è andata in ospedale con lesioni gravissime. Ai medici ha raccontato delle violenze subite dal suo ex, ha detto di temere per la propria vita, e che contro di lei erano state usate delle armi. La sua segnalazione è stata rimpallata da una caserma all'altra, e quando i carabinieri sono andati dalla giovane per raccogliere la sua denuncia, lei non l’ha messa a verbale. Aveva paura di un’escalation, che Soncin potesse diventare ancora più violento. E, nonostante in casi come questi la magistratura debba comunque intervenire, nessuno si è più occupato del caso di Genini. Che è stato classificato come ‘presunta violenza di genere’.

Per questo nuovo articolo di Streghe ho intervistato Cristina Carelli, presidente della rete nazionale dei centri antiviolenza D.i.Re, che da anni si occupa proprio di aiutare le donne nei loro percorsi di fuoriuscita dalla violenza.  “Genini non aveva solo risposto a un questionario – il modello SARA semplificato – che aveva evidenziato un livello di rischio alto. Aveva raccontato elementi molto importanti, che avrebbero dovuto far scattare l’allarme, perché erano chiare indicazioni di un’escalation della violenza”, spiega Carelli. “Aveva espresso paura e aveva raccontato di essere stata buttata giù dalle scale, un episodio molto grave. Nonostante ciò, non è stato attivato alcun percorso di protezione. Ciò che colpisce in modo particolare è che nessuno le abbia parlato della possibilità di rivolgersi a un centro antiviolenza. Come mai nessuno le ha illustrato la possibilità di rivolgersi a un CAV o di creare un contatto diretto con queste strutture, magari mediato dalle forze dell’ordine o dal sistema sanitario? Questo è il vero scandalo. Anche perché la denuncia, da sola, non è sufficiente: a volte, senza il supporto di un centro che possa monitorare i rischi, può perfino aumentare il pericolo”.

I CAV rappresentano presìdi fondamentali per le donne che desiderano intraprendere un percorso di fuoriuscita dalla violenza. Vi operano attiviste e professioniste qualificate che offrono supporto psicologico e legale, oltre a mettere a disposizione una rete di aiuto capace di sostenere la donna a 360 gradi. Si tratta di figure esperte che, tuttavia, troppo spesso non vengono coinvolte da medici e forze dell’ordine, nonostante il loro ruolo sia essenziale in queste situazioni. “I centri antiviolenza sono fondamentali per costruire un percorso di uscita dalla violenza, che prevede la valutazione dei rischi, spesso sottovalutati per mancanza di formazione adeguata o per la normalizzazione della violenza – aggiunge Carelli -. Ancora oggi, infatti, c’è una difficoltà diffusa nel riconoscere la violenza in tutte le sue forme. In questo caso, il vero assente (involontario, perché non è stato interpellato da chi avrebbe dovuto) è stato il centro antiviolenza e, più in generale, l’intera rete di protezione: quel sistema capace di accogliere la donna da ogni punto di vista, emotivo e pratico, e di accompagnarla nel percorso in sicurezza. Se a Genini in ospedale avessero parlato dei centri antiviolenza, forse oggi non saremmo arrivati a questo. La violenza avviene all’interno di relazioni complesse, ed è per questo fondamentale la presenza di qualcuno che sappia accompagnare la donna, illustrarle le possibili vie d’uscita e offrirle supporto legale, se necessario. La mancanza di strumenti esperti ha lasciato la donna sola di fronte a un rischio evidente”.

Si parla spesso di femminicidi, ma ciò che emerge è che il sistema antiviolenza, pur perfetto sulla carta — leggi, piani strategici, protocolli — nella realtà non protegge le donne. Molto spesso, infatti, il problema non è che le donne non chiedano aiuto, ma che l’aiuto non arrivi. E non è una responsabilità della donna se il sistema non funziona. Mentre il passaggio attraverso un centro antiviolenza rappresenta un’accoglienza adeguata, un’occasione per valutare il rischio e costruire strategie di protezione di cui la donna sia protagonista. Nonostante ciò, si tende ancora a stigmatizzare chi non denuncia, mentre le forze dell’ordine dovrebbero essere in grado di attivarsi anche d’ufficio nei casi di reato procedibile, come maltrattamenti e aggressioni”.

Le donne, in queste situazioni, agiscono nel caos e nella confusione: vivono paura, disorientamento e privazione di energie vitali a causa della violenza. Per questo, non possiamo attribuire loro la responsabilità del mancato intervento. Parliamo molto di violenza e della sua origine culturale, ma spesso in modo superficiale. Riconoscere l’origine culturale significa ammettere che la società — e ciascuno di noi — deve cambiare: nel linguaggio, nel modo di vedere le relazioni, nel riconoscere i diritti e le opportunità di donne e uomini. Cambiare davvero significa assumersi una responsabilità diretta, senza giudicare le donne. Quando una donna ha paura, ci sta comunicando che ha già vissuto minacce e situazioni pericolose. Nel caso di Pamela Genini, ciò che temeva è effettivamente accaduto. La rabbia nasce dal fatto che, ancora una volta, si chiede alle donne di agire, mentre il sistema non risponde. Le donne non sempre denunciano, ma cercano comunque di uscire dalla violenza, e dobbiamo permettere loro di farlo in sicurezza, offrendo sostegno e valutando i rischi”.

Questo riguarda tutta la società: lo sguardo delle persone fa la differenza. Le donne si vergognano, temono lo stigma sociale. Anche nella narrazione mediatica sul femminicidio, l’attenzione è stata centrata su di lei anziché sull’uomo violento e sul funzionamento del sistema. Le vittime dovrebbero essere lasciate in pace: ciò che conta è comprendere le dinamiche della violenza e le falle del sistema, che derivano da un retaggio culturale ancora forte. La formazione, da sola, non basta se i professionisti non riflettono sui propri pregiudizi e stereotipi. Questo caso ne è la prova: una vicenda drammatica, che ha provocato grande sofferenza e dimostra quanto si poteva fare e non si è fatto. Per questo è fondamentale rivolgersi ai centri antiviolenza, che operano partendo dal consenso, dall’ascolto e dalla libera scelta della donna, senza giudizi né percorsi standardizzati. I centri lavorano in rete con i servizi socio-sanitari, rispettando la Convenzione di Istanbul, che chiede di non rivittimizzare le donne. E invece, anche dopo la morte, questa donna è stata rivittimizzata. Cosa avrebbe potuto fare di più? Ha chiesto aiuto, si è rivolta a un ospedale, alle forze dell’ordine. Eppure, il sistema non ha funzionato. Parallelamente, assistiamo a un contesto paradossale: il governo dichiara di voler contrastare la violenza, ma limita i percorsi educativi nelle scuole, impedendo interventi essenziali per prevenirla fin dalla giovane età. Questo contraddice gli obiettivi di tutela e rende ancora più evidente quanto sia urgente riformare il sistema. In conclusione, dobbiamo intervenire su due fronti: proteggere immediatamente le donne vittime di violenza e prevenire culturalmente il fenomeno attraverso educazione e formazione. Solo così potremo avere un sistema capace di accompagnare la donna dall’inizio alla fine del percorso, garantendo sicurezza e protezione reali”.

Mi piacerebbe sapere cosa pensi del contenuto di questa settimana. Se lo ritieni importante, aiutami a diffondere questo lavoro: non solo condividendolo, ma anche parlandone a scuola, in famiglia, con gli amici, sul posto di lavoro. Se hai segnalazioni da fare, vuoi raccontarmi la tua esperienza, o pensi ci sia un argomento su cui è necessario fare luce, scrivimi a streghe@fanpage.it.

Ci sentiamo alla prossima puntata. Ti ricordo che ‘Streghe’ non ha un appuntamento fisso: esce quando serve. E dove serve, noi ci siamo.

Ciao!

Natascia Grbic

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Femminicidi, misoginia e cultura dello stupro dominano la nostra società, intrisa di odio verso le donne. La "caccia alle streghe" non è un fenomeno così lontano nel tempo, perché tra istituzioni indifferenti e media inadeguati o complici, gli uomini continuano ad ammazzare le donne quando non riescono a dominarle.  È ora di accendere i nostri fuochi e indirizzarli dove non si voleva guardare: Streghe è il nostro Osservatorio sul patriarcato, il nostro impegno per cambiare il modo in cui si raccontano le storie alla base di una società costruita a misura di uomo.

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