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Ciao,
uno degli argomenti più dibattuti degli ultimi giorni riguarda la proposta fatta da due senatori di Fratelli d’Italia di abrogare il divieto di pubblicità sessiste e discriminatorie sui cartelloni stradali. L’emendamento non è però solo indice di scarsa sensibilità e profondo sessismo, ma ci dice molto di come la destra comunica, ma soprattutto a chi sceglie di comunicare.
È di pochi giorni fa la proposta dei senatori Lucio Malan e Salvo Pugliese, di abrogare i due commi dell’articolo 23 del codice della Strada introdotto nel 2021, e che recita: “È vietata sulle strade e sui veicoli qualsiasi forma di pubblicità il cui contenuto proponga messaggi sessisti o violenti o stereotipi di genere offensivi”, oltre che “i messaggi lesivi del rispetto delle libertà individuali, dei diritti civili e politici, del credo religioso o dell’appartenenza etnica oppure discriminatori con riferimento all’orientamento sessuale, all’identità di genere o alle abilità fisiche e psichiche”. Ricordiamo tutte gli spot pubblicitari di qualche anno fa, con frasi come ‘Te la diamo gratis' o ‘Cosa le romperesti', e immagini di donne in déshabillé, pensate per attirare un pubblico maschile. Fortunatamente, messaggi di questo tipo sono stati oggetto di un ampio dibattito e sono quasi scomparsi. Oggi, quando riemergono, suscitano clamore proprio perché ritenuti inaccettabili.
In questi giorni si è molto parlato del possibile ritorno di cartelloni pubblicitari con slogan sessisti. Ma, secondo me, il punto non è tanto questo. Non credo che ci ritroveremo davvero davanti a manifesti come “A San Valentino falla venire”: la sensibilità è cambiata, e anche le donne di destra oggi difficilmente si riconoscerebbero in immagini di quel tipo. Il nodo centrale, piuttosto, è un altro. Questa vicenda racconta molto del modo in cui la destra sceglie di comunicare con il proprio elettorato, di segnare un confine simbolico su ciò che è accettabile e ciò che non lo è. In pratica: via libera a messaggi che ignorano o minimizzano la sensibilità delle persone LGBTQIA+, ma tolleranza zero per quelli che mettono in discussione la religione cattolica o l’idea tradizionale di famiglia. Basti pensare alla crociata che ogni tanto i partiti di destra fanno quando si scopre che nelle scuole si propongono a mensa anche piatti di altre culture, i cosiddetti ‘menù etnici'. È un esempio perfetto del loro modo di intendere l’identità: tutto ciò che rappresenta il riconoscimento di differenze culturali viene percepito come una minaccia ai ‘valori italiani’ o alla tradizione cattolica. Allo stesso tempo, messaggi o comportamenti che possono risultare offensivi verso le minoranze o altre culture, vengono invece difesi in nome della libertà di espressione. Un comportamento ambiguo che però ha un senso ben preciso.
Ne ho parlato con Giorgia Serughetti, docente di filosofia politica all’Università di Milano Bicocca, esperta su questioni di genere, teoria politica e autrice di numerosi testi, tra cui ‘Potere di altro genere – donne, femminismi e politica’. “Le motivazioni che la destra porta a sostegno di questa proposta di abrogazione sono quelle di evitare il rischio di censurare opinioni religiose o, più in generale, le posizioni del mondo pro-vita – mi spiega – In sostanza, si tratta di difendere pezzi dell’opinione pubblica cari alla destra, non alla collettività nel suo insieme. Secondo questa visione, infatti, l’attuale normativa rappresenterebbe un provvedimento di carattere liberticida, la cui possibile deriva sarebbe quella per cui qualunque posizione a favore della religione cristiana potrebbe risultare offensiva per i musulmani, oppure un manifesto a favore della famiglia potrebbe essere considerato lesivo nei confronti di chi una famiglia non ce l’ha, e così via. Portando all’estremo – e spesso al ridicolo – questa logica, si finisce per mettere in discussione il senso stesso di misure come il divieto di pubblicità sessiste o discriminatorie, arrivando a proporne la rimozione in nome della libertà di opinione e di pensiero”.
Si tratta, di “un tema da sempre caro alla destra, sia in Europa che negli Stati Uniti: quello del free speech, la libertà di parola, e quindi l’avversione verso qualunque forma di regolazione del discorso pubblico, soprattutto verso ciò che viene etichettato come politically correct. C’è però qualcosa di profondamente contraddittorio nel modo di operare della destra, che allo stesso tempo sbandiera la libertà di pensiero e di espressione contro quella che considera una sinistra illiberale — accusata di non permettere la libera manifestazione del pensiero — ma che, dall’altra parte, interviene continuamente con atti repressivi nel discorso pubblico”.
“La prima cosa che mi è saltata all’occhio, nei giorni in cui si parlava di questa questione, è che le stesse forze politiche — in questo caso Fratelli d’Italia, ma la logica è comune nella coalizione — con Gasparri, per esempio, vorrebbero vietare i discorsi critici su Israele, equiparando antisionismo e antisemitismo. Quindi, la stessa destra che difende la libertà di opinione quando si tratta di mondi a lei affini — come quello pro-vita o quello che diffonde idee razziste — chiede invece limitazioni quando si tratta di opinioni che non condivide. Un caso analogo riguarda i manifesti della Lega sulla sicurezza, che mostravano immagini scandalosamente razziste e che furono rimossi sulla base di quelle stesse norme che ora si vorrebbero abrogare. Quando si tratta di idee appartenenti al proprio mondo, vietarle o limitarle viene considerato liberticida, anche quando ciò che si fa valere è semplicemente la necessità di proteggere la libertà altrui — cioè il diritto di non essere offesi da messaggi esposti nello spazio pubblico. Se lo spazio pubblico è di tutti, allora non si può pensare che non ci siano limiti a ciò che si può esporre, perché le parole possono ferire: questa è la ratio di un provvedimento che regola e limita i messaggi pubblicitari. Tuttavia, se si tratta di idee che piacciono alla destra, regolare il linguaggio diventa liberticida; se invece riguardano idee sgradite, vietarle diventa una forma di ‘igiene del discorso pubblico’. È la stessa contraddizione che abbiamo visto negli Stati Uniti: dopo il caso dell’uccisione di Charlie Kirk, le stesse forze che si erano battute per il free speech chiedevano la rimozione di giornalisti e presentatori sgraditi”.
Non si tratta di un errore. Questo tipo di comunicazione è usato in modo strumentale, ed è lo stesso tipo di comunicazione che le destre stanno adottando in Europa e negli Stati Uniti. “Alla destra non interessa che siano garantiti i diritti e le libertà di tutti, ma solo di alcuni – continua infatti Serughetti -, fondamentalmente di coloro che appartengono al proprio campo politico e culturale. E questo rivela molto della visione di società che stanno promuovendo: una società di diseguali. Il progetto della destra è infatti quello di una società diseguale, ed è questo che lega le diverse mosse e iniziative politiche. Manca completamente l’obiettivo della promozione dell’uguaglianza — che non è mai stato nel DNA della destra — e ciò che unisce anime anche diverse (liberale, sociale, nazionalista, regionalista) è proprio la difesa delle diseguaglianze. Per questo, anche l’idea di limitare alcune libertà per proteggere i gruppi più vulnerabili — ad esempio da discriminazioni — è fuori dal loro orizzonte”.
In questo senso, usare in modo strumentale e favorire la sedimentazione degli stereotipi di genere, è funzionale a costruire consenso e consolidare il proprio elettorato. “Lo fa anche molto efficacemente, sfruttando il volto femminile del potere. Negli ultimi anni abbiamo visto una vera e propria femminilizzazione della leadership politica di destra, con figure come Giorgia Meloni in Italia, Marine Le Pen in Francia, o Alice Weidel in Germania. Questa femminilizzazione ha reso le destre più rassicuranti agli occhi dell’opinione pubblica, ‘ingentilendone' il volto, e ha permesso loro di ampliare la base elettorale, anche tra le donne. Possiamo infatti parlare di una chiusura del divario di genere nel voto a destra. È un femminile rassicurante, che non disturba, perché non mette in discussione l’ordine patriarcale. Non tanto per quello che rappresentano queste figure — che sono senza dubbio donne emancipate, autonome, capaci — ma perché interpretano la propria emancipazione in termini individuali, non collettivi. Non pensano alla loro storia come parte di una vicenda di emancipazione comune delle donne, ma come a un caso straordinario di successo personale. È un’emancipazione individualista, non femminista, che può convivere perfettamente con una visione reazionaria dei ruoli di genere. Anche quando queste donne hanno biografie personali non convenzionali — perché separate, madri single, o, come nel caso di Weidel, omosessuali — sostengono comunque una visione tradizionale della famiglia e si oppongono al riconoscimento di altre forme di vita familiare. Quindi, sì, è un paradosso, ma si risolve considerando che incarnano un modello di emancipazione individuale, non collettiva”.
“Il fatto poi di avere una donna alla guida serve anche a mascherare le proprie politiche: ‘Come potete accusarci di non essere a favore dei diritti delle donne, se abbiamo una donna al vertice?’, dicono spesso. È un argomento di facciata, perché nei fatti non ci sono politiche realmente rivolte a migliorare la condizione delle donne, né nel lavoro, né nella famiglia, né nei servizi. Si possono introdurre misure specifiche, come il sostegno alle madri con tre figli o alle famiglie numerose, ma queste non sono politiche per le donne: sono politiche per un certo modello di famiglia. Sostenere la maternità in senso tradizionale non equivale a promuovere la libertà e l’autonomia femminile. Allo stesso modo, non si può dire di fare politiche per le donne solo perché si è introdotto il reato di femminicidio, se non si accompagna questa misura a un cambiamento culturale più profondo. È un modo troppo mediatico di affrontare il tema, che non disturba nessuno e non mette in discussione gli equilibri di potere”.
Come dicevamo, la sensibilità anche a destra è cambiata rispetto al ruolo della donna. Serughetti riprende il tema specificando che “durante il ventennio berlusconiano era dominante una rappresentazione della femminilità servile, decorativa, centrata sulla bellezza e sulla disponibilità. Quel modello oggi sembra avere meno spazio, anche perché la destra è guidata da una donna. C’è stato uno spostamento, un cambiamento nella rappresentazione pubblica del potere femminile: dalla stagione berlusconiana a quella meloniana. Tuttavia, il fatto che a Giorgia Meloni interessi molto poco difendere i diritti e la libertà delle donne non offre garanzie che le voci più offensive e misogine — come quelle di Salvini o del generale Vannacci — vengano contrastate. Non possiamo dire che la destra meloniana sia una garanzia contro questi eccessi, anche se è vero che la stagione dell’uso del corpo femminile come ornamento del potere maschile è, almeno in parte, alle spalle. Certo, oggi la sensibilità collettiva è diversa, e certe cose non sarebbero più accettabili, anche se non possiamo dare per scontato che l’evoluzione sia a senso unico”.
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