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Non fatevi ingannare da qualche slogan o da un’incisiva card su Instagram: la questione del riconoscimento dello stato di Palestina è tutt’altro che semplice e va in qualche modo oltre gli ultimi sviluppi del conflitto in corso a Gaza. Ha una storia lunga decenni ed è stata diversamente declinata nel corso del tempo, con un processo che ha subito accelerazioni e frenate, restando però sempre incompiuto. Ne state sentendo parlare con grande insistenza in queste ore a seguito dell’annuncio da parte di Emmanuel Macron della volontà di aggiungere la Francia all’elenco dei circa 150 Paesi che riconoscono la Palestina come stato indipendente. E, qui da noi, dopo che Giorgia Meloni si è dichiarata indisponibile a seguire l’esempio dei nostri cugini francesi.
Come vi abbiamo raccontato in questo pezzo, la presidente del Consiglio (che pure nel 2015 aveva presentato una mozione per il riconoscimento della Palestina) ha confidato a La Repubblica di ritenere la scelta di Macron “controproducente”. Non è una novità, per la verità, perché effettivamente da quando è a Palazzo Chigi Meloni ha sempre sostenuto la soluzione “due popoli due Stati”, ma a valle di un processo che preveda il reciproco riconoscimento tra Israele e Palestina e una soluzione politica di ampio respiro. Una posizione di comodo, peraltro, per una serie di considerazioni che qui avevo provato a mettere nero su bianco.
Soprattutto, una linea che incontra il favore del suo grande alleato del momento, il presidente statunitense Donald Trump. Il quale, sul punto, ha attaccato in modo durissimo il presidente francese Macron: "Quello che dice non conta, non ha alcun peso". Lasciando poi che l'ambasciatore Huckabee calcasse la mano: “La dichiarazione unilaterale di Macron sulla creazione di uno Stato palestinese non specificava in quale luogo. Posso ora rivelare in esclusiva che la Francia proporrà la Costa Azzurra e che la nuova nazione si chiamerà "Franc-en-Stine". Critiche che non hanno impressionato più di tanto i francesi, che anzi hanno rilanciato le ragioni della scelta: si tratta di “una sconfitta simbolica per il terrorismo e di un segnale di supporto per chi vuole la pace”, ha spiegato il ministro degli Esteri Barrot, ribadendo anche che la Francia continuerà a opporsi “a qualsiasi tentativo di imporre la sovranità israeliana anche sui territori occupati” (punto su cui sono d’accordo anche Regno Unito e Germania, contrarie invece al riconoscimento della Palestina). Un botta e risposta che va avanti mentre a Gaza la situazione resta drammatica, con l'incubo della fame che si è aggiunto a quello delle bombe, mentre le trattative tra Hamas e il governo di Tel Aviv non fanno registrare passi avanti.
La sensazione è quella di un dibattito quasi certamente inutile. Danilo Ceccarelli su La Stampa riporta l’opinione del politologo Oliver Rey: “Riconoscimento controproducente? Non vedo come potrebbe peggiorare una situazione di per sé così grave. Il problema però sta nel fatto che non accadrà nulla, si resta nel campo delle dichiarazioni senza fare nulla di più […] I governi di destra, come quello italiano, sono caratterizzati da un trumpismo pro-israeliano, anti-sinistra, anti-woke e islamofobo. C'è un'assimilazione permanente tra palestinesi, Hamas, jihadismo e terrorismo che impedisce ogni approccio realmente politico al conflitto israelo-palestinese. Ma le cose sono molto più complicate".
Che il riconoscimento dello Stato di Palestina sia ormai ridotto a una mera questione “simbolica”, a ben guardare è il problema principale. Al momento, dato il contesto internazionale (tradotto: la linea di Trump e di chi lo spalleggia in Europa), non ha senso nemmeno come strumento per facilitare le trattative per un cessate il fuoco, né, come nota il New York Times, può essere considerato un passaggio diplomatico “serio” per la costruzione di un futuro per Gaza. Al limite, scrive sempre il quotidiano statunitense, può essere un tentativo di “contrastare l’intensificarsi del tentativo israeliano di espellere i palestinesi dalle macerie di Gaza”.
Certo, c’è un elemento strettamente politico, che questo pezzo di Associated Press evidenzia bene e che in qualche modo dà un minimo di senso alla decisione francese:
Finora, Cina e Russia erano gli unici membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite a riconoscere lo Stato palestinese. La Francia si unirà a loro quando Macron manterrà la sua promessa a settembre, durante l’Assemblea Generale dell’ONU. Il nuovo trio lascerà gli Stati Uniti e il Regno Unito in minoranza all’interno del Consiglio di Sicurezza, come gli unici membri permanenti a non riconoscere la Palestina come Stato.
Le cosiddette nazioni del P5 sono divise su molte altre questioni — tra cui l’Ucraina, il commercio e il cambiamento climatico — quindi il cambiamento di posizione della Francia, di per sé, difficilmente provocherà trasformazioni radicali e rapide per i palestinesi. Tuttavia, anche solo a livello numerico, gli Stati Uniti — l’alleato più importante di Israele — e il Regno Unito potrebbero trovarsi più isolati tra le grandi potenze in eventuali discussioni sulle soluzioni per il Medio Oriente. […] Anche per questo motivo, l’attenzione ora si sta spostando sulle altre nazioni del G7, in ragione della loro forza economica e diplomatica.
Cambierebbe qualcosa se altri Stati europei, fra cui l'Italia, si unissero alla Francia? Difficile dirlo, perché l'asse israelo-statunitense sembra immune da pressioni di questo tipo. Così come del tutto irrealistica appare la strada delle sanzioni, cui si sono dichiarati indisponibili anche alcuni dei leader che ora stanno scoprendo l'insostenibilità della situazione a Gaza. È un po' la cartina di tornasole di questa situazione: Israele deve fermarsi, ma guai a parlare di sanzioni, di stop al supporto militare, di azioni concrete della comunità internazionale. Insomma, da qualunque prospettiva si guardi la questione, ci si rende conto di essere in una tremenda e dolorosa fase di stallo. Nella quale si può al massimo intervenire con dei palliativi (contro la crisi umanitaria, magari con una tregua temporanea o garantendo un rifornimento costante di beni di prima necessità), ma sempre di corto respiro.
Tornando al nocciolo della questione di cui ci occupiamo oggi, va detto che è opinione comune che la soluzione “due popoli due Stati” al momento non sia neanche immaginabile. Nelle narrazioni di queste ore viene utilizzata in modo strumentale, diventando nient'altro che una formula vuota. Il grande rimosso dal dibattito è il diritto di autodeterminazione dei palestinesi, che Israele e la comunità internazionale devono garantire in modo pieno e completo, mettendo fine alle logiche coloniali che hanno guidato le mosse dei governi di Tel Aviv. Spesso infatti ci si dimentica che la precondizione per qualunque ragionamento sul futuro della Palestina dovrebbe essere fare i conti con quel colonialismo di insediamento che si accompagna a plurime violazioni del diritto internazionale da parte israeliana (di cui gli insediamenti illegali sono un aspetto centrale). Immaginare un'autodeterminazione "limitata", senza cioè la possibilità di determinarsi giuridicamente, politicamente, demograficamente. È parlare del nulla e in ciò i nostri rappresentanti sono davvero dei fenomeni.
Ecco perché, come scrive la vicedirettrice del Manifesto Chiara Cruciati, il dibattito di questi giorni è surreale:
I palestinesi e le palestinesi hanno diritto di vivere in libertà e dignità e di decidere per sé. Di stabilire quale forma giuridica dare alla propria società liberata. Si chiama decolonizzazione. Ma proprio perché le abitudini sono dure a morire, all’Europa pare più che normale dettare i tempi, le forme, i confini. Gode di una certa esperienza, nel Medio Oriente del secolo scorso ha disegnato stati e generato mostri.
Appare dunque surreale, e invece è orribilmente vero, che i leader mondiali, di fronte al controllo strutturale esercitato da Israele su ogni aspetto della vita palestinese, di fronte alla distruzione sistematica di un popolo intero una persona dopo l’altra, di fronte a metodi di sterminio che tolgono il sonno, stiano là ad arrovellarsi se riconoscere o meno lo stato di Palestina. È la cometa di Don’t Look Up: riempiamo giornali e tv con un dibattito destinato a sopravvivere il tempo strettamente necessario a dirsi innocenti, in attesa di essere inceneriti. I palestinesi, però, a differenza di Meloni, Merz, Starmer e Macron, hanno fretta.
Vengono inceneriti ogni minuto che passa, nel corpo e nella dignità.
A cosa serve il riconoscimento dello stato di Palestina? Se serve a salvarsi dal giudizio della storia, delle società civili globali e da quello (si spera arrivi) degli umanissimi tribunali internazionali, è tardi: la cortina fumogena di dichiarazioni di sdegno per le pratiche di sterminio israeliane non nascondono la faccia di nessuno dei complici materiali del genocidio. Se serve a fare pressione sul governo israeliano – che, lo dice dal 1948, non ha intenzione di riconoscere alcunché – ci tocca dare una delusione ai protagonisti di tale entusiasmante dibattito. Esistono metodi più rapidi delle strigliate in tv e degli appelli accorati a Israele per interrompere lo sterminio attraverso l’uso barbaro e fascista della fame, per impedirgli di bombardare tende e macerie a Gaza e di dare fuoco e spianare comunità in Cisgiordania, per porre fine alla carcerazione collettiva di milioni di persone.
È tardi per intestarsi scelte serie e puntuali, non lo è per chiedere una incisiva azione della comunità internazionale per la salvezza dei palestinesi a Gaza. È già troppo tardi perché Nethanyahu riconosca di aver condotto la sua nazione in un vicolo cieco, sia pure in risposta a un attacco barbaro e disumano. Soprattutto, è troppo tardi per i riposizionamenti di comodo, magari determinati dall'enorme ondata di indignazione dell'opinione pubblica internazionale di fronte all'orrore senza fine di Gaza.