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Ricevi la rassegna speciale a cura di Adriano Biondi

Il controllo della narrazione è tutto, ormai. Da questa considerazione non si sfugge e quanto sta avvenendo in queste settimane non fa altro che confermarlo. Basta guardare il modo in cui il piano di pace e (si spera) l’accordo per Gaza sono stati presentati all’opinione pubblica, con la rimozione delle responsabilità e la normalizzazione del massacro di decine di migliaia di persone. Si è addirittura imposto il frame opposto: la pace come “grande risultato” della campagna militare del governo israeliano, foraggiata, incoraggiata e protetta dalle amministrazioni americane che si sono succedute. Il tutto in un rovesciamento complessivo in cui chiunque provasse a sollevare una qualche obiezione o perplessità veniva bollato come fiancheggiatore di terroristi e criminali. Dai pacifisti scesi in piazza nelle ultime settimane agli attivisti pro Palestina che da ben prima del 7 ottobre denunciano l’insostenibilità della situazione a Gaza, passando per quei pochi governi che si sono opposti alla strategia di Netanyahu, fino a quelli che hanno sempre combattuto la brutalità del terrorismo islamista: un unico fronte bollato come “nemico della pace”, la più infamante delle accuse, solo per non aver creduto fino in fondo nella bontà del piano Trump o nella buona fede dei negoziatori e di chi dovrà gestire la ricostruzione.
Un caso da manuale, dicevamo. Un vero gaslighting. Che in Italia ha assunto i contorni del grottesco e del farsesco, per il modo provinciale e imbarazzante con cui è stato presentato all’opinione pubblica. Perché quando i giornali della destra hanno rilanciato la sciocchezza meloniana della Flotilla organizzata per “mettere in difficoltà il governo Meloni”, pensavamo di aver visto e letto di tutto. Quando abbiamo assistito alla demonizzazione e colpevolizzazione degli attivisti nonviolenti e pacifisti della Flotilla, pensavamo si fosse toccato il fondo. Quando abbiamo letto gli insulti e le accuse a chi era stato vittima di vessazioni e violazioni del diritto da parte israeliana, pensavamo che fosse il colpo di coda di un modo profondamente sbagliato di intendere il lavoro giornalistico.
Invece, non era che un assaggio. Un esempio di ciò di cui sarebbero stati capaci.
Mentre Donald Trump pronunciava singolari, ma storici, discorsi alla Knesset e a Sharm, riservando un trattamento ancor più singolare (e certamente meno storico) alla nostra presidente del Consiglio, in Italia andava in scena una surreale battaglia a colpi di "lo avevamo detto" e "adesso rosicate", una specie di resa dei conti politica tra i due supposti schieramenti, basata non solo sulla falsa dicotomia tra l'adesione acritica ed entusiasta alla pax trumpiana e la prosecuzione della guerra, il massacro dei civili e la prigionia degli ostaggi, ma soprattutto sulla costante delegittimazione di interlocutori non allineati, precondizione per quell'avvelenamento dei pozzi che rende impossibile qualunque discussione di senso.
Come capita a volte di fare in questo spazio, una semplice carrellata di titoli comparsi sui giornali italiani in questi ultimi giorni può rendere la questione più comprensibile:
- A sinistra musi lunghi per la pace (Il Giornale)
- La sinistra confonde ostaggi e terroristi (Libero)
- I compagni barattano Gaza con l’etica (La Verità)
- I pro pal disoccupati all’improvviso fondano il partito del no alla pace (La Verità)
- La pace non si fa con i cortei (Italia Oggi)
- La pace scomoda per il popolo anti-Trump (Il Messaggero)
- I compagni che neanche provano a esultare per la pace. Solo imbarazzo o c’è malafede? (Libero)
- Albanese balla da sola e i compagni la mollano (Libero) – Per inciso, sulla charachter assassination di Albanese sarebbe necessario aprire un discorso a parte, considerando il livello di livore raggiunto da una serie di pezzi, non solo sui giornali della destra
- Trump, Macron e le cantonate della sinistra (Il Tempo)
- L’ideologia che cancella i meriti di Bibi (Il Giornale)
- I pro pal non accettano la tregua (Il Giornale)
- Politici e intellettuali pro pal non si rassegnano alla tregua (Libero)
- I giornaloni in lutto: quanta amarezza per la pax di Donald (Il Fattoquotidiano)
Ora, secondo voi, che margini ci sono per scendere in un dibattito orientato in questo modo? Ha senso provare a ragionare in questo mare di generalizzazioni, di fallacie logiche e argomentative, di distorsioni e di vere e proprie fake news?
Intendiamoci, abbiamo già assistito a gigantesche operazioni di rimozione delle responsabilità e di riscrittura della storia, anche recente. Ma è sorprendente notare la rapidità con cui avvengono tali processi e si costruiscono narrazioni funzionali al mantenimento o al rafforzamento di sistemi di potere. Soprattutto, per il modo in cui si impongono all’opinione pubblica.
Chi ora volesse provare a fare un ragionamento più articolato, magari sulla necessità di coinvolgere la società palestinese nella ricostruzione e nella definizione dei nuovi assetti di Gaza e della Cisgiordania, sarebbe immediatamente tacciato di voler sabotare la costruzione trumpiana. Chi, come ad esempio il premier spagnolo Sanchez, si limitasse a ribadire l’ovvio, dunque la permanenza del mandato di cattura per crimini contro l’umanità e la necessità di continuare a indagare sulla sussistenza dell’accusa di genocidio, verrebbe di colpo equiparato ai tagliagole di Hamas. Chi dovesse sottolineare come la pace sia stata raggiunta “trattando” con quella stessa fazione con cui, prima dei massacri, non era possibile in alcun modo “trattare”, sarebbe oggetto di una fatwa da quegli stessi che chiedevano a Israele di usare “anche i carriarmati” per rispondere ai crimini del 7 ottobre.
Eppure da qualche parte bisogna partire, è necessario. Provare a tenere insieme i pezzi, raccontare ai lettori quello che sta accadendo fornendo loro tutti gli strumenti necessari per formarsi un'opinione. Senza lasciare che l'entusiasmo e la speranza per la fine dei massacri (e che sia così, di nuovo, speriamo) pieghino il racconto dei fatti ad altri scopi, o contribuiscano a normalizzare "l'inferno in terra" che è adesso Gaza . Lo ha detto il regista Basel Adra al nostro Valerio Nicolosi in un recente colloquio: "Bisogna raccontare quello che avviene, senza farsi influenzare dai governi e sapendo che è necessario continuare a fare pressione".
E, al momento, il racconto di ciò che avviene non può partire dalle enormi complessità e insidie che si nascondono dietro la tregua. E dall'assenza dal dibattito di questioni cruciali: la fine dell'apartheid, lo stop al colonialismo, il diritto all'autodeterminazione dei palestinesi, le reciproche garanzie di sicurezza.
C’è una interessante intervista di Gideon Levy, di Haaretz, su La Stampa in cui si prova a ragionare sulle questioni aperte: “Non ho dubbi che il cessate il fuoco sarà man-tenuto. La domanda è sul lungo periodo. Lì sono scettico. Il piano Trump ha molte falle, molte ambiguità. Non c'è un calendario. Non ci sono risposte precise alla domanda principale: chi governerà Gaza? Gaza è un luogo molto complesso. Ora è invivibile. Un consiglio di 15 tecnocrati con Tony Blair non potrà salvarla. Serve molto di più".
In particolare, la volontà delle parti in causa. Cosa non scontata: “In Israele esiste solo Netanyahu, nel bene e nel male. E temo che il suo governo non sia disposto a cambiare mentalità. Voglio dire, dovrebbe cambiarla completamente. Non credo che possa accadere […] Netanyahu non ha mai creduto in alcuna forma di accordo con i palestinesi. Crede che Israele debba vivere solo con la spada, solo grazie alla propria forza militare. Ha fatto tutto il possibile – e ci è riuscito -per distruggere la soluzione dei due Stati. Ha fatto di tutto, ed è riuscito, a distruggere l'Autorità nazionale palestinese. Ora non può essere un partner, perché non ci crede. […] E Hamas è forte fuori Gaza. Dentro Gaza, la gente ne ha soprattutto paura. Non sono sicuro che vincerebbe, se ci fossero elezioni libere, ma a Gaza non c'è libertà. Perché Hamas per molti ha portato a questi due anni terribili. Ovviamente insieme a Israele. In Cisgiordania, invece, e nel mondo arabo, è ancora vista come "resistenza", mentre l'Anp collabora con Israele”.
Non sembra esserci spazio, insomma, per una via diversa, che metta al centro le vittime, che parta dalle loro necessità, ragioni, speranze. Considerando, appunto, che ciò che manca in questo momento (e che proprio non riesce a entrare nel dibattito pubblico) è la voce dei palestinesi, cui viene ancora una volta negata la possibilità di autodeterminarsi, mentre altri prendono decisioni sulle loro teste. Insomma, è difficile ora immaginare la pace non soltanto intesa come vita "temporaneamente" libera dalla guerra, ma come orizzonte ideale e concreto al tempo stesso.
– Adriano Biondi