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Cosa ha rappresentato Napoli Milionaria per la città: Eduardo parlò del dolore di tutti

Il 25 marzo 1945 al San Carlo, la prima di “Napoli Milionaria”: lacrime e dolore. Eduardo aveva raccontato la sofferenza di tutti.
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«Ha dda passà ‘a nuttata!». Quando in una sola battuta è racchiuso un mondo di attesa, dolore e speranza, che è poi quello che la guerra fa agli uomini, si realizza la Regola: «Lo sforzo disperato che compie l'uomo nel tentativo di dare alla vita un qualsiasi significato è teatro».

Eduardo De Filippo quando porta in scena "Napoli Milionaria!" è ad una fase decisiva della sua vita d'artista e personale. L'addio al Teatro Umoristico con Titina e Peppino (dopo il drammatico litigio fra i due fratelli) e la situazione generale del Paese, la lacerante Seconda Guerra Mondiale, la Liberazione dal nazifascismo e il dolore di un'Italia bombardata in ogni anfratto, col Sud sprofondato nella miseria più cupa.

È in quel momento che Eduardo – da quel momento in poi in locandina fu solo Eduardo, senza il cognome – cambia completamente il repertorio e parla della Guerra appena conclusa, ambientando questi meravigliosi tre atti nel 1942, alla fine del secondo anno di guerra, in un "basso", «’o vascio ’e donn’Amalia Iovine».

I protagonisti abitano nei bassi, riempiti liti, risate, voci, schiamazzi, amore, morte e dolori: donna Amalia, il marito Gennaro Jovine e i tre figli Maria Rosaria, Amedeo e la più piccola, Rituccia. Ma protagonista è il vicolo intero: donna Peppenella, Errico ‘Settebellizze‘, Peppe ‘o Cricco, il ragioniere Spasiano con la sua famiglia e il brigadiere Ciappa.

Gennaro Jovine, tranviere disoccupato causa guerra, passa per semplicione, per il classico personaggio "sui generis" agli occhi del vicolo e della sua stessa famiglia («papà è fesso!») che lo "usa" letteralmente, come diversivo per fare la borsa nera, ovvero il traffico di generi alimentari proibiti durante il fascismo.

Quando Jovine viene fatto prigioniero dai tedeschi, lo si crede morto. E invece no: torna dopo mesi (nella trasposizione televisiva della commedia diventa un anno e mezzo).  Ma don Gennaro è cambiato, è stravolto: è la sua seconda guerra ma questa – dice – tocca di più, va nel profondo. «Nun facimme male Amà, nun facimme male…», ammonisce.

Sostiene che la guerra «nunn è fernuta» don Gennaro, ma nessuno vuole stare a sentir raccontare gli orrori che egli ha visto e patito. Il resto è dramma, storia e poesia. Il disfacimento della famiglia (tema caro a Eduardo) che Jovine si trova davanti, con la moglie che si è fatta prendere dalla "febbre" dell'arricchimento facile con la borsa nera (per questo Napoli è "milionaria") i prestiti a strozzo, la speculazione ai danni dei più poveri. È una famiglia che cade a pezzi: il figlio più grande, Amedeo, diventa un ladro, la figlia Maria Rosaria è incinta di un soldato americano che l'ha lasciata e se n'è tornato a casa.

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Poi c'è il dramma della più piccola, Rituccia: è gravemente malata. Serve una medicina ma non si trova. Alla fine a trovargliela e salvarla sarà un ragioniere che donna Amalia negli anni ha ridotto in povertà con la speculazione e i prestiti. Rituccia avrà la medicina gratuitamente, il ragioniere non vuole nulla.

Sarà quel dono salvifico a far crollare il castello. Quando Amalia e Gennaro sono seduti nella notte più lunga in cucina, aspettando di capire se la figlia supererà la crisi, hanno un confronto durissimo. È il confronto fra chi ha visto la guerra e chi l'ha fatta, i sopravvissuti e i sopravviventi, i sommersi e i salvati. Uno dei pezzi vibranti di teatro più potente del Novecento Italiano.

«Deve passare la nottata»: la nottata è quella dell'Italia postbellica, perdente e lacerata, da ricostruire non solo nelle mura e nelle strade poiché strappata negli animi, nelle speranze, nelle ideologie. Maurizio Giammusso, autore della più bella biografia su Eduardo De Filippo, edita da Minimum Fax, scrive:

Il 25 marzo 1945, alle ore sedici e trenta, in un silenzio teso, si alzò il maestoso sipario del San Carlo. In città la guerra era finita da appena sei mesi, ma i tedeschi erano ancora dalle parti di Firenze.

Quasi tutte le sale erano requisite e Eduardo aveva ottenuto il teatro lirico per una sola rappresentazione a beneficio dei bambini poveri della città.

La platea era piena, i professori d’orchestra, per assistere allo spettacolo, s’erano infilati nel «golfo mistico» allungando il collo per guardare dal basso gli attori.

Il grande palcoscenico, ridotto a metà e stretto in proporzione, dava un eccellente risultato sia dal punto di vista della concentrazione dell’azione che dell’acustica.

«Arrivai al terzo atto con sgomento» ricorderà Eduardo. «Recitavo e sentivo attorno a me un silenzio assoluto, terribile. Quando dissi la battuta finale: “Deve passare la notte”, e scese il pesante velario, ci fu silenzio ancora per otto o dieci secondi, poi scoppiò un applauso furioso, e anche un pianto irrefrenabile.

Tutti avevano in mano un fazzoletto, gli orchestrali che si erano alzati in piedi, i macchinisti che avevano invaso la scena, il pubblico che era salito sul palco.
Tutti piangevano e anch’io piangevo, e piangeva Raffaele Viviani che era corso ad abbracciarmi. Io avevo detto il dolore di tutti».

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