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La roba di Sandokan: la saga nera dei latifondi che fecero grande il clan dei Casalesi

L’arresto di Ivanhoe Schiavone, l’ultimo figlio del boss casalese “Sandokan” ancora in libertà. Indagine su vasti terreni acquistati quasi trent’anni fa.
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Ivanhoe Schiavone e il padre Francesco, alias Sandokan
Ivanhoe Schiavone e il padre Francesco, alias Sandokan

«Roba mia, vientene con me», diceva Mazzarò prima di morire. La roba, le distese sconfinate di terreni, i pascoli e gli oliveti. La roba che aveva sottratto al vecchio padrone, il barone, con la dura fatica e con l’inganno, con la frode e con fame insaziabile. La roba, la stessa della famiglia Schiavone da Casal di Principe, quel pezzo di latifondo frazionato dopo la riforma agraria e finito nelle mani del vecchio Nicola, il padre del boss chiamato Sandokan e poi da questo ingrandito a dismisura, fino alle porte di Villaricca e di Giugliano, fino al recinto dell’aeroporto militare. È lì, nella tenuta Selvalunga, che Francesco Schiavone è diventato agricoltore. È lì che diventò camorrista, quando i cutoliani cercarono di portargliela via. Ed è ancora lì, nel cuore del distretto della mozzarella, che stamattina si è consumato l’ultimo (?) atto di una saga familiare e di mafia: in carcere, arrestato dai carabinieri di Caserta e su richiesta della Dda di Napoli, è finito Ivanhoe Schiavone, il quarto dei sette figli del boss, l’unico dei maschi ancora in libertà, accusato di riciclaggio e tentata estorsione con le aggravanti delle finalità e del metodo mafiosi.

Tutto per quella roba, accumulata negli anni passati, rimasta intestata ai vecchi proprietari (solo una porzione è stata confiscata), data in fitto, venduta, transitata per le mani di prestanome, rivendicata dagli eredi del vecchio Nicola e dallo stesso Francesco Schiavone, motivo di scontro tra fratelli e sorelle, oggetto di rivendicazione con la moglie Giuseppina Nappa, monetizzata da Ivanhoe che avrebbe sperperato nel gioco il ricavato della vendita.

In carcere anche Pasquale Corvino, imprenditore di Formia, figlio del vecchio prestanome morto qualche tempo fa, che con il giovane Schiavone avrebbe costretto l’affittuario dei terreni, tredici ettari fertilissimi e mezzo milione di valore, ad andare via e a non esercitare il diritto di prelazione. Il canone di locazione non bastava più, e c’era già chi era disposto a comprare, sia pure a prezzo formalmente scontato. L'intervento minatorio ai danni del locatario era stato denunciato dallo stesso a settembre del 2019, avvenuto a vantaggio della Aurora Agricola, locataria per alcuni mesi prima del formale acquisto (nel 2021) da parte della società San Luca. Aurora e San Luca appartengono alla famiglia Natale (Mario, Gianluca ed Enrico Maria).

Fin qui la storia semplice della vicenda giudiziaria. Ma la lettura dell’ordinanza racconta altro, ben altro: il contesto in cui tutto questo accadeva; la contrarietà del vecchio capoclan detenuto che della vendita dei terreni (che aveva acquistato prima del suo ultimo arresto, nel 1998) non era stato informato; i dissapori con la moglie e con il fratello Antonio, per le terre e per un trattore ceduto chissà quando e a chi; i rapporti con i suoi uomini fidati di un tempo, tra i quali l’avvocato Mario Natale il cui figlio, Enrico Maria, è l’ultimo acquirente: candidato a sindaco nel 2014, è l’attuale assessore ai lavori pubblici a Casal di Principe. Il padre, coinvolto in passato in altre indagini sul clan Schiavone, arrestato e poi prosciolto, ritenuto dagli inquirenti il contabile della famiglia, era stato dirigente dell’Albanova Calcio proprio nel periodo in cui la squadra, in corsa per la C2, era di proprietà del clan. Era stato anche proprietario della sala Bingo di Teverola, che fu destinataria di un sequestro. «Uomo fidato di mio padre, di cui ho già parlato in altri interrogatori», ha dichiarato a verbale pochi mesi fa il primogenito del boss, Nicola, collaboratore di giustizia.

La struttura confiscata
La struttura confiscata

Sono le voci del capoclan e dei suoi familiare, intercettati durante i colloqui in carcere, a testimoniare il disappunto di Schiavone per la vendita delle “sue” terre; per il disinteresse del fratello Antonio per lui e per i suoi figli (erano andati a chiedergli di lavorare nella sua azienda erano stato indirizzati alla Caritas); per il comportamento della moglie. È lui a chiederle conto dei terreni, a Madonna di Briano, che furono suoi e poi sono stati acquistata da «‘o mericano», Cosentino. «Ce l’ha Giannino», chiarisce la donna. Terreni accanto ai quali doveva essere costruito il centro commerciale “Il Principe”, progetto imprenditorial-camorristico poi abortito.

Ed è lui, in un verbale di interrogatorio reso durante la sua brevissima collaborazione con gli inquirenti, da marzo a giugno dello scorso anno, il primo a essere inserito in un atto giudiziario, a rivelare la proprietà dei terreni, rimasti intestati alla famiglia Corvino: «Avevano 42 moggi proprio accanto alla proprietà di mio padre; io volevo prenderli in fitto per il foraggio, mi fu proposto di comprarli per 16 milioni di lire a moggio. Così di accordammo ma sono rimasti sempre intestati a Corvino».

Per evitare le confische. Erano gli anni Ottanta, il tempo in cui il capo dei Casalesi disegnava il clan, dopo la scomparsa di Bardellino, a sua immagine e somiglianza. Il tempo in cui diventava il nuovo barone del latifondo. Tutta roba di Mazzarò. Tutta roba di Sandokan.

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