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Il murales dei Quartieri Spagnoli, la “vera” tomba di Diego Armando Maradona

Storia di Diego Armando Maradona a partire dal murale diventato simbolo del calciatore in città e della sua storia di uomo e atleta.
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Le sue spoglie riposano in un cimitero di Buenos Aires, un grande giardino dove le tombe sono tutte uguali: lì ci si può sedere sull’erba e pregare, se si crede.

Ma chi vuole celebrare la grandezza sportiva di Diego Armando Maradona o ricordare la contraddizione che fu, deve andare a Napoli, nella città che lo fece Dio in terra.

C’è un posto di Napoli che potremmo chiamare la vera tomba di Diego Armando Maradona: è ai Quartieri Spagnoli, lì dove c’è il grande murales diventato il simbolo dell’amore di un popolo per il più grande calciatore che sia mai sceso su un campo di calcio.

Un murales che è anche simbolo della trasformazione di Napoli, delle cose che si cambiano e di certe altre che restano drammaticamente le stesse.

Davanti a quel grosso dipinto di Diego con la maglia azzurra, in via Emanuele De Deo, ci sono passato per anni.

Era l’epoca in cui Diego sembrava una memoria remota, anzi da rimuovere. E il murale quando io scendevo ai Quartieri Spagnoli, era specchio di quei tempi: scolorito, scrostato.
Su quell’enorme facciata era stata perfino realizzata una finestra abusiva che si apriva proprio sulla faccia dell’uomo che fino a qualche anno fa era l’idolo di una intera città.

Ma non era iniziata così.

Quando e perché nasce il murale di Diego Armando Maradona?

Lo vogliono due persone dopo il secondo scudetto del Napoli. Uno si chiama Esposito. Oggi è don Antonio, ma un tempo era solo Bostik, capo ultras della frangia delle “Teste Matte” .
L’altro è Mario Filardi, ragazzo dei Quartieri che sa dipingere.

Bostik fa una colletta in mezzo ai vicoli, dove tutti tifano azzurro, viene montato un cantiere traballante davanti al muro scrostato e Mario inizia a dipingere, avendo come unico riferimento una piccola foto di Diego Armando, in cui è con la maglia azzurra nell’atto di correre veloce come una scheggia, con la palla al piede.

Al lavoro partecipa tutto il quartiere: chi porta la vernice, chi monta l’impalcatura, chi prepara ‘a marenna per Mario.

Intense e interminabili ore di lavoro: Mario Filardi è stravolto ma il murale è pronto. La faccia di Maradona sembra quella di un supereroe, i lineamenti sono stilizzati. Alla gente piace.

Il tempo passa. Diego va via da Napoli e c’è un momento in cui il suo ricordo fa male. Il grosso Maradona di Filardi quasi come se lo avvertisse, perde pezzi, si scolorisce.
Diventa un’ombra, così come lo è la vita di Maradona divorato dalla cocaina e dalle polemiche.

Il murale scolorito / foto gentilmente concessa da Roberto Saviano
Il murale scolorito / foto gentilmente concessa da Roberto Saviano

È nel 2016 – pensate quanti anni dopo! – che un altro ragazzo del quartiere, Salvatore Iodice, un falegname, decide di fare una nuova colletta di quartiere per restaurare il murale di Diego.

L’azzurro torna azzurro, la faccia è sempre quella da fumetto.

L’anno dopo ci penserà lo street artist argentino Francisco Bosoletti a dare a quel volto i tratti che conosciamo ora: quelli di una delle opere di strada più fotografate d’Europa.

Il pomeriggio del 25 novembre 2020, quando in Italia si diffonde la notizia della morte di Diego sono due i posti di Napoli in cui i tifosi iniziano il pellegrinaggio deponendo fiori, foto, bandiere, sciarpe, affidando al dio del calcio una preghiera.

I due posti sono lo stadio San Paolo che di lì a poco sarebbe stato ribattezzato e il murale dei Quartieri Spagnoli.
È una scena surreale: d’inverno la notte cala presto e nei vicoli si fa tutto scuro subito.
Un solo posto dei Quartieri è illuminato: è il murale, dove si accendono, lumini di chiesa e luci di cellulari.

È questa la veglia funebre di Napoli che ha scelto di seppellire il suo campione fra i vicoli. Quella notte un gruppo di argentini in vacanza in città chiede alla gente dov’è "il volto di Diego" . E vengono accompagnati al largo Maradona per pregare. Come fossero ad una camera ardente.

Inizia tutto così.

Andateci oggi, dopo il terzo scudetto, e vi renderete conto.
Vi renderete conto che la memoria di Maradona è diventata pane quotidiano per metà popolazione dei Quartieri Spagnoli, una delle zone più povere di Napoli.

Dove non passava nessuno per paura di scippi e rapine ora si procede a passo di tartaruga per farsi largo tra la folla, ad ogni ora del giorno.

Visite guidate per conoscere la storia del murales, camere di bed and breakfast che costano come a Parigi o Londra. Ci sono menù, bibite e ristoranti con l'effigie di Diego.

Ormai qualsiasi artista venga a Napoli per un concerto sale ai Quartieri: è un omaggio e un gesto d’appartenenza, lo hanno fatto centinaia di calciatori, presidenti e popstar.

Come il luogo d’un santuario o quello di una battaglia storica i Quartieri Spagnoli vivono e monetizzano il culto di D10s.
Maradona è diventato una delle più importanti economie di Napoli. La maglia azzurra 10 della Mars, la storica Maglia Buitoni sono fra quelle più contraffatte d’Italia: a Napoli e in provincia ci sono serigrafie che lavorano a tempo pieno soltanto per sfornare pezzi per il culto maradoniano.

Chi conosce Napoli sa che proprio in quella zona, oggi attrazione globale, c’è anche una delle piazze di spaccio più note d’Italia. L’ultima inchiesta risale alla primavera 2023.

È nota perché ha un nome quasi poetico: "La Sposa".

Sul perché la piazza di spaccio dei Quartieri, una delle più remunerative di Napoli centro, si chiami la Sposa, ci sono varie teorie. Alcuni pentiti sostengono che ha questo nome poiché fu gestita da una donna.

Nell’immaginario della camorra c’è sempre la necessità di far accettare l’azione criminale come necessaria, giustificata e giustificabile.

Quindi fra le leggende c'è pure quella secondo la quale la fondatrice della piazza di spaccio era una giovane donna che, rimasta vedova poco dopo il matrimonio, si era vista costretta a vendere droga…ma lo aveva fatto solo per sfamare i figli.

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Verrebbe da dire che l’ombra della camorra accompagna il rapporto fra Napoli e Maradona anche dopo la sua morte. Non molti lo ricordano, ma l’epopea napoletana di Diego era iniziata proprio così: appena messo piede a Napoli gli fu chiesto se sapesse della camorra.

7 luglio 1984. Alain Chaillou, un giornalista francese di Tf1, nella conferenza stampa di presentazione del calciatore arrivato dal Barcellona gli chiede: «Vorrei sapere se Maradona sa che cosa è la camorra e se lui sa che i soldi della camorra qua sono dappertutto, anche nel calcio».

Non fa nemmeno in tempo a pronunciare la parola “camorra” che il presidente del Calcio Napoli Corrado Ferlaino lo sbatte fuori dalla stanza, indignato. Quella parola non va nemmeno nominata.

E invece quella parola, quella presenza, sarà una costante della vita di Diego in città.
Perché Maradona sarà spolpato vivo dalla camorra.

Della foto di Maradona nella vasca a conchiglia in casa di Carmine Giuliano, ‘o lione, il boss di Forcella si è parlato tanto. Il campione vittima del suo vizio e per questo vulnerabile, ostaggio di chiunque gli procurasse la coca.

Nel 2017 a Maurizio Costanzo Diego fornisce una sua versione: «Dalla malavita ho avuto solo la sicurezza che nessuno avrebbe toccato le mie bambine se non fossi tornato a Napoli. Carmine Giuliano mi diede la sua parola che nessuno le avrebbe mai toccate».

La storia di Diego ci mostra con chiarezza qual è il cinismo del sistema camorristico: individuare le debolezze dell'uomo e imbrigliarlo nei suoi demoni: coca, prostitute e qualsiasi altra cosa per tenerlo sotto costante estorsione.

Tutti vogliono conoscere Maradona, tutti a Napoli vogliono avere una foto con Maradona, tutti sognano una serata con gli amici e Maradona. E i boss, sempre alla ricerca di consenso popolare, perché è così che legittimano le loro azioni, auto-nomimandosi modelli vincenti, capiscono che associarsi alla figura, al brand Maradona, in quegli anni è il messaggio più potente a Napoli.

Peppe Misso, capo dei uno dei più sanguinari clan del centro storico, anni dopo confesserà una idea fenomenale che aveva avuto per pubblicizzare il suo negozio di scarpe in via Duomo a Napoli: si fa dare da un amico fotografo le foto delle azioni salienti delle partite appena giocate.

E le fa sviluppare subito, la stessa domenica, prima del 90esimo Minuto Rai che era l’unico modo per vedere i gol. Gli scatti diventano l’allestimento della vetrina del negozio di scarpe. La gente va a guardare le foto di Maradona e compra le scarpe.

È incredibile pensare che tutto questo, all’improvviso, possa finire. E invece accade.

Nel febbraio 1991 la prima botta: un’inchiesta giudiziaria sul narcotraffico e un giro di prostituzione tira in ballo el Pibe de Oro.

Emerge che già ad tempo esistevano informative dei carabinieri. Descrivevano Maradona come «un assuntore di sostanze stupefacenti».
Del resto nella Napoli di quegli anni , in certi ambienti, la dipendenza di Diego dalla coca era il segreto di Pulcinella.

Passa un mese e arriva l’altra botta, stavolta in campo: il test antidoping che risulterà positivo alla cocaina.

Succede in occasione di Napoli-Bari, è il 17 marzo 1991, il giorno dell’ultima partita di Diego al San Paolo. Tutti coloro che avevano a che fare col Napoli sapevano – o temevano – che quel test sarebbe risultato positivo. Nessuno stavolta si azzardò a dribblare il test con i mezzi che di solito venivano usati per proteggerlo.

Inizia il distacco.
Era stato accompagnato allo stadio da un popolo intero.
Era completamente solo quando se ne andò.

La valanga è appena iniziata: Maradona il 27 aprile del 1991 viene arrestato a Buenos Aires, con la cocaina in casa.
Cerca di disfarsene, viene portato via dalla polizia. Diranno: «Aveva lo sguardo perso nel vuoto».

Intanto la Federazione Calcio lo sospende fino al 1992 per doping.

In Italia sono quattro casi aperti con la giustizia, due civili e due penali, fra droga, inadempimento contrattuale, ragazze-squillo e il riconoscimento della paternità del figlio avuto con Cristiana Sinagra.

Napoli, la città che lo ha idolatrato, lo rigetta.
Il santo laico non è più santo.

Nel 1992, Edoardo Bennato nei panni di Joe Sarnataro canta: «Ma into a stà città manco ‘e sante è facite allignà!», in questa città nemmeno ai santi fate mettere radici.

Anni dopo lo stesso Diego ammetterà questa schiavitù, nel film documentario di Emir Kusturica: «Emir – dice – Pensa che giocatore sarei stato se non avessi tirato la cocaina! Che giocatore che abbiamo perso!»

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Il mito è umano, maledettamente umano.
Ma è con la morte che torna a essere D10S.
Seppellito in un luogo lontano da Napoli anche se la sua tomba è qui.

Ce lo conferma un fatto di poche settimane fa, quando una ragazza è vista in ginocchio a pregare davanti al murales dei Quartieri Spagnoli.

Prega. È malinconica, è fra le mille sciarpe e maglie che calciatori e tifosi di tutto il pianeta hanno deposto qui, come fosse un sacrario.

Qualcuno è attirato, non si capisce bene perché, ma rivolge la parola. E lei risponde in uno spagnolo argentino.

Una ragazza argentina davanti al murale di Maradona a Napoli? È normale che qualcuno le rivolga la parola.

«Tu lo vedi come un dio?»
«Anche. Però lo vedo come il mio papà».

La ragazza è Jana. È la figlia che Diego si convinse a riconoscere soltanto dopo anni e cui chiese in lacrime perdono per averne dubitato.

«Sì, è il mio papà» ripete.

E una voce a pochi metri le dice, davanti alla facciata dipinta, ai lumini e alle maglie «Diego non ci ha mai lasciato, ricordatelo».

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