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L’omicidio di Desirée Piovanelli, uccisa 23 anni fa con 33 coltellate: i dubbi della famiglia sul delitto

Sono trascorsi 23 anni dall’omicidio di Desirèe Piovanelli, la 14enne uccisa con 33 coltellate in una cascina a Leno (Brescia). La famiglia ha ancora molti dubbi sul movente del suo assassino e sui veri mandanti.
A cura di Ilaria Quattrone
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Desirèe Piovanelli
Desirèe Piovanelli

Sono trascorsi 23 anni dall'omicidio di Desirèe Piovanelli, la ragazzina di soli quattordici anni che è stata assassinata a Leno, un comune di oltre 14mila abitanti della provincia di Brescia. Il suo caso, all'epoca, ha sconvolto l'Italia. Non solo per l'età della vittima, ma anche per la brutalità del delitto: Piovanelli è stata infatti ammazzata con 33 coltellate. Nonostante tre gradi di giudizio, la famiglia ritiene che vi siano ancora dubbi. In particolare, su chi lo abbia commesso e sui responsabili.

L'omicidio di Desirèè Piovanelli

La quattordicenne è stata uccisa il 28 settembre 2002. Quel giorno, Piovanelli, mentre usciva di casa, ha detto ai familiari di stare andando a studiare da un'amica. Non vedendola rientrare, la famiglia ne ha denunciato la scomparsa. Interrogata dai carabinieri, l'amica ha subito sostenuto che non aveva alcun appuntamento con la quattordicenne.

Le indagini si sono poi concentrate su un sedicenne, un vicino di casa della famiglia Piovanelli, che la giovane conosceva. Gli inquirenti sono risaliti a lui dopo che a uno dei fratelli della quattordicenne è arrivato un messaggio inviato da una cabina telefonica: "So che mi state cercando, ma non vi dovete preoccupare. Io sto bene e sono con Tony, non torno a casa, voglio stare con lui".

Tony era un ragazzo per il quale la giovane aveva una simpatia, ma che quando arrivò il messaggio si trovava in caserma dai carabinieri. Dall'analisi dei tabulati telefonici, è stato possibile scoprire che qualcuno aveva inviato l'sms da una cabina telefonica molto vicina a casa dei Piovanelli e utilizzando una scheda prepagata.

Questa apparteneva a una signora di Trieste che, interrogata, ha raccontato di averla persa in un campeggio a Jesolo. Gli inquirenti hanno scoperto che il vicino di casa sedicenne, quell'estate, era stato nello stesso campeggio. Interrogato, ha raccontato di aver inviato il messaggio per scherzo. Durante l'interrogatorio, gli investigatori hanno subito notato alcuni graffi sulle braccia. Insospettiti, lo hanno fatto accomodare in una stanza della caserma dove c'erano microfoni ambientali e lì ha confessato il delitto al padre.

Grazie alla sua confessione, è stato poi possibile trovare il corpo: era in un casolare abbandonato, la cascina Ermengarda, aveva fascette ai polsi e il cadavere era coperto con un telo sporco. In un'altra cascina è stata trovata l'arma del delitto: un coltello da cucina. Il sedicenne ha poi ammesso di non essere stato l'unico autore dell'omicidio. Ha permesso di risalire a un altro minorenne, un 14enne, che ha confessato l'omicidio e fatto il nome di un terzo minorenne, che ha sempre negato di aver commesso il delitto.

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C'è poi un maggiorenne, il 37enne Giovanni Erra, che viveva di fronte alla giovane. I due si conoscevano perché la quattordicenne faceva la baby sitter al figlio, che all'epoca aveva otto anni.

Giovanni Erra
Giovanni Erra

Le indagini hanno permesso di scoprire che il gruppo ha attirato la giovane in una cascina abbandonata con la scusa di vedere alcuni gattini. Una volta all'interno della struttura, hanno provato a violentarla. La ragazzina ha provato a resistere, ma è stata accoltellata al torace. Ha poi provato a scappare – come dimostrato dall'impronta della sua mano trovata sul muro -, anche saltando da una finestra, ma è stata colpita alle spalle e bloccata. È stata poi picchiata, portata al piano superiore del casolare ed è stata uccisa.

Le condanne

Erra è stato condannato in via definitiva a trent'anni di carcere, i due sedicenni a 18 e 15 anni di carcere e il 14enne a dieci anni di carcere. Erra, negli anni successivi, è stato affidato ai servizi sociali e vive in comunità. Inoltre ha avuto uno sconto di pena di sette anni per buona condotta ed entro quest'anno sarà libero. Gli altri tre, invece, hanno già espiato la pena.

I dubbi della famiglia

Nonostante le condanne, la famiglia sostiene che vi siano alcuni aspetti ancora da chiarire. Il primo dubbio che, secondo la famiglia, andrebbe chiarito è quello relativo ai mandanti. Il padre Maurizio Piovanelli sostiene che la figlia non sia stata vittima di uno stupro di gruppo, ma di un sequestro finito male. Questo, sempre secondo il 63enne, sarebbe stato organizzato da una rete di pedofili presente nella Bassa bresciana.

Il mandante, che avrebbe voluto coinvolgere la figlia in un giro di prostituzione minorile, non sarebbe mai stato trovato. Per esempio per l'uomo, gli inquirenti avrebbero dovuto capire a chi fosse indirizzata le telefonate e il messaggio che, all'epoca dei fatti, il sedicenne ha fatto a una persona adulta prima del delitto.

Il secondo dubbio fa riferimento alle tracce di Dna maschili ignoti trovate sul giubbino della ragazza. Maurizio Piovanelli sostiene che queste non siano mai state analizzate.

L'inchiesta bis archiviata

Nel 2018 era stata riaperta l'indagine: la famiglia, attraverso gli avvocati Cesare Gualazzini e Alessandro Pozzani, aveva presentato un esposto alla Procura di Brescia sostenendo proprio la tesi della prostituzione minorile.

Le indagini sono ripartite e sono state interrogate diverse persone, tra queste anche i quattro condannati. Ma nel 2021 il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Brescia ha deciso di archiviare l'inchiesta così come richiesto anche dalla pubblico ministero Barbara Benzi. Sia per la procura che per il giudice non ci sarebbero elementi concreti a sostegno di questa ipotesi. Il gip, nonostante l'archiviazione, ha però disposto il mantenimento di sequestro del profilo di Dna ignoto "nella possibile sopravvenenza di ulteriori elementi". Il padre della giovane però sostiene di avere in tasca una mossa che potrebbe far ripartire le indagini.

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