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Come vengono sfruttati i lavoratori nei laboratori cinesi dove si produce la merce a marchio Giorgio Armani

I lavoratori pagati 2-3 euro l’ora e costretti a dormire e mangiare in condizioni degradanti: ecco cosa accade negli opifici cinesi nel Milanese dove avveniva la produzione della merce del marchio Giorgio Armani.
A cura di Giorgia Venturini
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Per la Procura di Milano nei laboratori cinesi in cui viene prodotta la merce a marchio Giorgio Armani i lavoratori sono vittime di sfruttamento: in questi capannoni un fornitore italiano di Armani subappaltava la produzione di borse, pelletteria e accessori dell'importante brand di moda ad altre società che sfruttavano manodopera straniera irregolare.

Per questo il Tribunale di Milano ieri venerdì 5 aprile ha sottoposto ad "amministrazione giudiziaria" la Giorgio Armani Operations spa: la società controllata interamente dalla Giorgio Armani spa non è indagata ma sarà affiancata nella gestione dei rapporti con tutti i fornitori. Perché? Il pubblico ministro le ha contestato di aver agevolato lo sfruttamento del lavoro. Il reato di caporalato è stato invece unicamente contestato ai titolari degli opifici cinesi che i carabinieri hanno ora provveduto alla chiusura: per questi titolari si è aperto un procedimento penale.

Ma cosa accadeva all'interno di questi capannoni? Come venivano sfruttati i lavoratori? Ma soprattutto: lo sfruttamento del lavoro in questi laboratori è uno schema che si ripete?

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Lo schema generale del caporalato nei laboratori cinesi

Dopo anni e anni di indagini negli opifici della zona a conduzione cinese il Nucleo Ispettorato del Lavoro del Comando carabinieri di Milano ha ricostruito "non solo semplici e contingenti difformità alle normative vigenti in materia di tutela del lavoro, ma aspetti comuni e ricorrenti", come si legge negli atti del Tribunale. Ovvero si ripetono: l'utilizzo e lo sfruttamento di manodopera irregolare e clandestina; il transito degli stessi soggetti irregolari da un opificio all'altro; la presenza del medesimo committente della produzione in sub appalto.

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Tre punti fondamentali che avrebbero portato a un "generale schema del meccanismo di sfruttamento lavorativo". Le principali case di moda affidano, mediante contratti d'appalto, l'intera produzione ad altre società committenti non avendo così più nulla a che fare con il processo produttivo.

Qui la Procura nei suoi atti ha sottolineato come avviene tutto il meccanismo di subappalti e di sfruttamento: "L'azienda appaltatrice della casa di moda dispone soltanto nominalmente di adeguate capacità produttive, potendo di fatto provvedere alla sola campionatura del materiale e non alla produzione dell'intera linea ed in particolare tali aziende possono competere sul mercato solo esternalizzando le commesse ad opifici cinesi, riuscendo ad abbattere i costi grazie all'impiego di manodopera irregolare e clandestina".

I titolari di queste società cinesi reclutano "connazionali stretti nella morsa della clandestinità e comunque nella ridotta possibilità di emancipazione nel territorio nazionale". I lavoratori così, le cui istruzioni sulla produzione le ricevono direttamente dalla società appaltatrice, vengono sfruttati nei capannoni in cui producono la merce di alta moda. Come nel caso di questa ultima operazione dei carabinieri.

Da qui il coinvolgimento dei grandi marchi di moda: questi, tra cui quello anche della Giorgio Armani Operation spa, "mostrano – secondo gli atti della Procura – una generalizzata carenza di modelli organizzati" e per questo si sono avvalsi di persone che si è scoperto essere "dediti a un pesante sfruttamento lavorativo integra la condotta agevolata".

Cosa accade negli opifici cinesi: l'accusa è di caporalato

Ai titolari della ditte a cui era ceduto l'appalto per la produzione della merce a marchio Giorgio Armani il pubblico ministero ha contestato lo sfruttamento dei lavoratori. Cosa succedeva? Durante la perquisizioni dei carabinieri è stato accertato che nei capannoni delle società cinesi venivano violate le norme in materia di sicurezza e igiene. Nel dettaglio: tutti i lavoratori non erano stati sottoposti alla visita medica di idoneità; i "dipendenti" erano in grave pericolo perché erano stati rimossi i dispositivi di sicurezza dei macchinari e perché non erano correttamente custoditi i dispositivi chimici e infiammabili.

E ancora: i lavoratori dormivano in condizioni di fortuna. Le aziende infatti metteva a loro disposizione solo alloggi degradanti. Molti spazi infatti erano abusivi: ex locali utilizzati alla produzione venivano infatti trasformati in dormitori e cucina. Questo vuol dire che "il profondo stato di degrado della situazione alloggiativa" era un "alto rischio di pericolo per i lavoratori".

Sul piano contrattuale invece, gli orari di lavoro non erano quelli decisi nero su bianco. Anche in questo caso si parla di sfruttamento perché "la compressione dei costi del lavoro avviene camuffando un orario lavorativo part time rispetto a orari lavorativi pieni e che, in molti casi, superano gli orari canonici di 8 ore lavorative a giornata". Ma come spiegato dalla Procura il fattore principale che attesta lo sfruttamento è la retribuzione oraria nettamente inferiore a quella prevista dal CCNL Artigiano-tessile: nel caso di questi accertamenti la retribuzione era inferiore anche del 50 per cento. Il che vuol dire che sono emerse paghe anche da 2-3 euro l'ora.

Ora questi laboratori sono stati chiusi e si procederà con tutti gli accertamenti in sede giudiziaria.

La risposta dell'azienda di Giorgio Armani alla decisione del Tribunale di Milano

Pochi minuti dopo la notizia della chiusura dei laboratori cinesi e dell'amministrazione giudiziaria per la Giorgio Armani Operations spa, la società dichiara: "Apprendiamo della misura di prevenzione decisa dai Tribunali di Milano nei confronti della GA Operations. La società ha da sempre in atto misure di controllo e di prevenzione atte a minimizzare abusi nella catena di fornitura. La GA Operations collaborerà con la massima trasparenza con gli organi competenti per chiarire la propria posizione rispetto alla vicenda".

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