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La crisi europea è sempre più politica

Crisi del debito sovrano: la politica del rinvio mostra sempre più i suoi limiti col Portogallo che sembra avviato in una spirale mortale come la Grecia. Mentre l’Italia deve sperare che Monti riesca a convincere Frau Merkel.
A cura di Luca Spoldi
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Coelho Merkel

Portogallo, bye bye: dopo la Grecia, che da settimane trascina le trattative coi bondholder privati ufficialmente per giungere un accordo che garantisca la “volontarietà” della ristrutturazione e dunque eviti che scatti il “default event” che porterebbe ad un fallimento “disordinato” (sullo stile dell’Argentina tanto per capirci) in grado di coinvolgere anche enti sovranazionali come Bce e Fmi finora esclusi dalle perdite (che invece per le banche private sono ormai stimate attorno al 70%, ne più ne meno di quello che mediamente accade con qualsiasi fallimento ai creditori non privilegiati), in pratica, si sospetta, per dare tempo a quante più banche possibili di cedere (se possibile) o comunque svalutare completamente (se non si trovassero controparti a cui cedere i titoli neppure tra i fondi hedge specializzati in titoli “distressed”) gli ultimi titoli di stato greci in portafoglio, anche il Portogallo sembra avviato sulla stessa strada, col rendimento del titolo a cinque anni di Lisbona schizzato oggi sopra il 22% di rendimento e uno spread tra i titoli decennali di Lisbona e i Bund tedeschi balzato al 17,39% (il 2,19% in più di venerdì).

Il tutto non si sa poi bene perché: se perché col downgrade di inizio anno da parte di Standard & Poor’s qualche gestore obbligazionario passivo (che dunque riproduce gli indici obbligazionari senza particolare discrezionalità) ha dovuto vendere i titoli di Lisbona ancora in suo possesso essendo nel frattempo il ratin sovrano del paese caduto a livello “junk” (cartaccia), se perché a differenza dell’Irlanda (finora un caso più unico che raro tra tutti i paesi europei entrati in crisi) il Portogallo non sembra in grado di rispettare gli impegni presi e dunque avrà probabilmente bisogno di un secondo aiuto o se semplicemente perché dopo l’ennesimo stop arrivato dalla Kanzellerin Angela Merkel è ormai evidente anche alle mosche sulla carta moschicida che la crisi del debito sovrano europeo non è solo e non è tanto legata all’evolversi dei conti pubblici e dello scenario macroeconomico (in entrambi i casi in peggioramento dopo le manovre correttive fortemente “pro cicliche” che i PIIGS europei hanno varato sotto la pressione della Germania e dei mercati), quando alle pressioni politiche tedesche, francesi e statunitensi (tutti paesi in cui quest’anno si tengono importanti elezioni politiche), in uno scenario in cui alla Merkel, a Sarkozy e a Obama conviene mostrarsi sempre più intransigenti all’estero per poter guadagnare voti facendo leva sulla difesa degli interessi nazionali.

Questa crisi non è purtroppo nata da un andamento negativo dei conti pubblici, ma da un rallentamento del ciclo economico seguito agli sforzi eccezionali fatti per evitare nel 2008-2009 il collasso del sistema finanziario mondiale a seguito dell’implosione di Bear Stearns e Lehman Brothers (e dei quasi fallimenti di AIG, Northern Rock, Royal Bank of Scotland, Lloyds Banking Group, ING Groep e Depfa, solo per ricordare alcuni tra i più rilevanti salvataggi pubblici). Il problema a monte è sempre stato duplice: da un lato uno squilibrio crescente tra paesi occidentali sviluppati sempre meno “a crescita” (anche perché con la globalizzazione le aziende si spostano là dove produrre costa meno e/o dove vi sono profitti potenziali più vasti) e sempre più carichi di debiti (anche perché la demografia gioca a sfavore, col progressivo invecchiamento della popolazione); dall’altro un accumulo di risorse economiche, e quindi di potere politico, da parte dei mercati un tempo “emergenti” e ormai “a crescita” come Brasile, Russia, India e Cina. Mercati che già stanno affrontando rivoluzioni epocali e che sono impegnati in molti casi a passare da una crescita trainata quasi esclusivamente dalle esportazioni a una crescita trainata dalla domanda interna e che non sembrano molto interessati (se non in difesa dei propri interessi e dunque in cambio di robuste contropartite sia economiche sia politiche) a intervenire nella crisi.

Il quadro insomma non cambia, nonostante lo speranzoso rimbalzo dei listini di inizio anno: l’Europa sta entrando in una fase recessiva che potrebbe essere più o meno dura a seconda di quanto reggeranno i mercati di sbocco delle esportazioni del vecchio continente, mentre le autorità politiche non trovano alcun accordo comune impelagate come sono ciascuna in vista delle proprie scadenze elettorali e così proseguono con la politica del prender tempo che condanna l’Europa ad anni di semi immobilismo in termini di crescita economica e che mostra comunque i suoi limiti in giornate come oggi.
Dal canto loro le banche stanno tirando il più a lungo possibile il rafforzamento patrimoniale chiesto dall’Eba (a sua volta una misura fortemente pro-ciclica, che si sarebbe dovuta dunque attuare in una fase espansiva non nell’attuale fase di contrazione dell’economia) e sono sempre più tentate dal tagliere il credito prima che rivoluzionare i propri assetti proprietari con nuovi aumenti di capitale, anche se poi, specie in Italia, qualcosa si muove: i Ligresti sono stati costretti alla resa e hanno dovuto rinunciare ai “premi” di maggioranza e alle ricche buonuscite legate a “patti di non concorrenza”, mentre UniCredit l’aumento da 7,5 miliardi di euro l’ha condotto in porto senza che il consorzio di garanzia sia dovuto intervenire direttamente, anche se in più di un caso banche del consorzio hanno finito col finanziare singoli grandi soci perché potessero sottoscrivere i propri titoli.

Nel mezzo la Banca centrale europea fa quel che può innaffiando il mercato di liquidità abbondante e a costo minimo, divenendo sempre più simile alla Federal Reserve statunitense (che dal canto suo per non far correre troppo il dollaro, col rischio di strozzare nella culla la debole ripresa americana, ha già fatto sapere che non muoverà i tassi fino al 2013 “inoltrato”, dunque per quasi un biennio da adesso), così da limitare il credit crunch in presenza di un continuo “deleveraging” (ossia riduzione della leva finanziaria, in pratica riduzione dei prestiti accordati a imprese e famiglie) che fa sì che una parte crescente del reddito disponibile che si sottrae a un fisco sempre più vorace viene impiegato per ripagare parte dei debiti pregressi, a ulteriore danno di consumi e risparmi. Ma nonostante intervenga sul mercato ad acquistare ieri bond spagnoli e italiani, oggi portoghesi, non può da sola risolvere il problema di mercati del credito disfunzionali per totale assenza di acquirenti per i titoli dei paesi "a rischio", nè può spingere le banche a fidarsi le une delle altre e nei confronti dei propri clienti (è già tanto che riesca a far sì che sottoscrivano titoli del debito pubblico via via che vengono emessi, soprattutto se di scadenza entro i 3 anni).

L’ipotesi di una eurozona a due velocità sembra sempre più concreta, pur con tutti i costi e le incertezze che comporta; l’unica notizia positiva è che forse anche grazie al governo Monti (e sempre se non prevarranno le tentazioni che paiono in crescita sia nel Centrosinistra sia soprattutto nel Centrodestra di far cadere il governo all’insegna del “tanto peggio, tanto meglio”) l’Italia potrebbe seguire l’esempio di Irlanda e Spagna e tirarsi fuori dai guai, mentre a cadere resterebbero la Grecia e il Portogallo. Economie tutto sommato modeste e sacrificabili (almeno agli occhi della Germania) sull’altare di un’Europa che presto potrebbe avere il tedesco come seconda lingua più utilizzata e non l’inglese. A meno che non si trovi un modo per allentare la pressione politica e riportare il discorso sui fondamentali macroeconomici di lungo periodo, sulla corretta interpretazione dei dati sul debito a livello aggregato e sul concetto di solidarietà tra stati europei in ottica di una vera unione politica ed economica e non solo su un “fiscal pact” che potrebbe definitivamente impantanare l’Europa in una “non soluzione” alla tedesca. Un tentativo in questa direzione Mario Monti sembra intenzionato a farlo, per il bene di tutta l’Europa bisognerebbe fare il tifo perché riesca nell’intento, anche se al momento le possibilità sembrano davvero minime, purtroppo.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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