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Opinioni

Italia, è ora di tagliare il debito?

Anche per la Germania le prospettive economiche si fanno incerte, mentre la deflazione “morde” sempre più il Sud Europa, dal Portogallo all’Italia. Gli obiettivi del risanamento sono sempre più a rischio e c’è chi inizia a proporre di tagliare il debito per ripartire. Ma se sulla carta la proposta è affascinante, nella pratica il contraccolpo potrebbe essere poco piacevole…
A cura di Luca Spoldi
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Allacciate le cinture: l’economia di Eurolandia rischia di schiantarsi nuovamente. Se finora a parziale consolazione di una “ripresa” anemica e a macchie di leopardo che aveva già visto paesi come l’Italia rimanere indietro (ed anzi cadere in “recessione tecnica” dopo la diffusione delle prime stime sulla variazione del Pil del secondo trimestre) si poteva indicare la “locomotiva tedesca”, tra qualche giorno potrebbe non essere più così. Il brutto dato dell’indice Zew (che misura la fiducia degli operatori economici nell’andamento dell’economia per i sei mesi successivi all’inchiesta) che ad agosto è calato per la sesta volta consecutiva di fatto seppelliscono le speranze che quella che finora era l’economia più forte del vecchio continente potesse superare indenne le tensioni legate alla crisi ucraina. Una crisi che anzi minaccia Berlino più e prima di ogni altro paese membro dell’Unione Europea visto l’interscambio economico tanto con Mosca (contro cui Usa e Ue stanno adottando sanzioni economiche via via più pesanti) quanto con Kiev.

Ai rischi di un contraccolpo economico dovuto alla tensione tra Russia e Ucraina si sommano poi le tensioni crescenti legate sia a crisi geopolitiche come tra Israele e Hamas e all’avanzata dell’Isis in Iraq, sia i timori di un’epidemia di Ebola che dall’Africa potrebbe estendersi in altre aree del pianeta con tutte le (potenzialmente gravi) conseguenze del caso.  Se poi non bastassero, ci sono ulteriori motivi di preoccupazione squisitamente economici. La deflazione è infatti ormai una realtà in paesi come il Portogallo (dove i prezzi sono calati mediamente dello 0,9% in luglio) e almeno in parte in Italia (dove i prezzi sono cresciuti di uno striminzito 0,1% su base annua sempre a luglio secondo le stime preliminari dell’Istat a livello nazionale, rispetto al +0,3% di giugno, con una contrazione mensile dello 0,1% e, cosa ancor più significativa, con dieci capoluoghi di regione ormai in deflazione conclamata: Livorno (-0,7%), Verona (-0,5%), Torino (-0,4%), Firenze (-0,3%), Bari (-0,3%), Roma (-0,2%), Trieste (-0,1%), Potenza (-0,1%), Ravenna (-0,1%) e Reggio Emilia (-0,1%).

Qualcuno potrebbe chiedersi: ma non fanno bene dei prezzi in discesa? La risposta è: dipende. Se come in questo caso il calo dei prezzi è attribuibile ad un raffreddarsi del costo “dei prezzi degli energetici regolamentati”, mentre “il contributo di altri raggruppamenti di prodotto è marginale”, per le tasche di gran parte degli italiani, aziende o famiglie che siano, l’effetto è nullo o quasi. In compenso siccome i rapporti deficit/Pil e debito/Pil sono calcolati sulla base della variazione nominale (variazione reale più inflazione) ogni accenno di deflazione rende, a parità di ogni altro fattore, più difficile per l’Italia rispettare gli obiettivi preposti, ovvero un deficit/Pil sotto il 3% e un debito/Pil che non salga ulteriormente per poi anzi iniziare a scendere (dovendosi ridurre a partire dal 2015, in base al fiscal compact sottoscritto anche dall’Italia, entro il 60% del Pil dall’attuale 135% avendo a disposizione 20 anni). Forse per questo alcuni economisti come Lucrazia Reichlin stanno iniziando a proporre, per la verità attraverso formule che appaiono fumose ai più, di ristrutturare il debito pubblico italiano ne più ne meno di come un’azienda in difficoltà per l’eccessivo peso del debito rispetto al proprio fatturato e margini chiede alle banche di ristrutturare i propri obblighi, di solito allungando la scadenza del debito stesso e/o attraverso la rinuncia da parte delle banche medesime a vedersi rimborsata una quota dei prestiti erogati.

Sulla carta la soluzione ha un suo fascino: se per esempio i bondholder italiani e mondiali rinunciassero ad un 20% del capitale nominale sottoscritto o accettassero di vedersi rimborsati i titoli a scadenze più lunghe di quelle previste, l’impatto sui conti pubblici sarebbe notevole, visto che a fronte di un debito nominale di circa 2200 miliardi che “costa” attorno al 3,5%, ci sarebbero da rimborsare 400-450 miliardi in meno e si pagherebbero 15-20 miliardi in meno di interessi all’anno. Si tratterebbe in pratica di un gigantesco “bail in” sul tipo della procedura adottata per il salvataggio di Banco Espirito Santo (e nella sostanza anche di Alitalia) con gli investitori che, azionisti o obbligazionisti che siano, accettano (obtorto collo) che siano loro addossati i rischi (e in questo caso le perdite) del caso. Purtroppo se la soluzione ha un suo fascino teorico, rischia di non averne alcuno nella pratica, perché il dover accettare un maggior rischio (anzi delle perdite) porterebbe ad un immediato (per quanto non quantificabile) incremento dei tassi sul debito che fosse ancora da rinnovare. Occorrerebbe dunque affiancare comunque ad una manovra “una tantum” che agli occhi degli investitori rischierebbe di accumunare l’Italia alla Grecia e all’Argentina una serie di riforme strutturali che rendano più appetibile, ossia più conveniente, investire in Italia.

Tutte cose di cui si continua a discutere da anni senza costrutto alcuno. Così la sensazione è che a cavare le castagne dal fuoco dovrà essere ancora una volta la Bce di Mario Draghi, usando finalmente un “bazooka” all’altezza della situazione, ad esempio col varo del più volte prospettato Quantitative Easing (l’acquisto di crediti cartolarizzati da parte della Bce). Peraltro come già si è visto in questi anni fornire liquidità al sistema (perché questo si otterrebbe) non basta a convincere le aziende ad investire, essendo gli investimenti una funzione delle prospettive future di crescita della domanda. E quindi siamo punto e a capo, se non si modificano le prospettive del sistema non si potrà ottenere alcuna significativa variazione del sistema medesimo, ma se non si riforma il sistema le prospettive difficilmente potranno cambiare. Che piaccia o che non piaccia le riforme restano l’unica (stretta e tortuosa) strada percorribile per ridare speranze all’Italia e agli italiani. Il tempo dei rimpianti dei “bei tempi” che furono quando una “svalutazione competitiva” poteva per qualche trimestre drogare le nostre statistiche economiche è finito da un pezzo, quello in cui si spera sempre che lo “stellone” o qualcun altro possa arrivare a salvarci pure. Stavolta dovremo salvarci da soli, anche se con l’aiuto di tutti (vero Bundesbank?).

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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