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La storia di Mia, tutte le notti si butta nei bassifondi del web per cancellare i video di porno non consensuale

Mia Landsem ha subito il revenge porn da parte del suo ex ragazzo. Per sopravvivere ha scelto di aiutare le vittime di un fenomeno che sta crescendo sempre di più.
A cura di Elisabetta Rosso
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Mia Landsem, di notte, accende il computer. Sul suo schermo scorrono immagini intime di donne e mail piene di disperate richieste di aiuto. Ogni tanto suona qualche bot, che lei stessa ha installato, le segnalano che è stato creato un nuovo gruppo. Di quelli pieni zeppi di uomini che mortificano le donne. “Faccio screenshot, salvo le conversazioni. Se c'è una scena del crimine e qualcuno sta uccidendo qualcuno, devi raccogliere le prove subito dopo che è successo", dice.

Ha 25 anni, i capelli biondissimi ed è piena di tatuaggi, “sii coraggiosa”, “non me ne frega un cazzo", si legge sul suo corpo. Di giorno Mia Landsem è un’esperta di cybersecurity. La notte si trasforma dà la caccia ai criminali informatici, quelli che abusano delle donne diffondendo immagini intime sul web. Stiamo parlando di pornografia deepfake, upskirting, e revenge porn. “Cerco di concentrarmi sui peggiori", spiega al Guardian, "posso far rimuovere diversi gruppi in un giorno inviando le prove alla polizia, ma poi ne compaiono altri 20". Entra in incognito dentro i gruppi, raccoglie i nomi degli utenti, gli indirizzi IP, URL e i metadati delle immagini, (che indicano quando e dove è stata scattata la fotografia e su quale dispositivo).

La storia di Mia

Lei per prima è stata una vittima. “Catturare i criminali era inizialmente un modo per rimanere in vita”, racconta Landsem. Diciotto anni, entra dentro un pub di Trondheim, Norvegia, e vede un gruppo di ragazzi, ridono di lei. Si avvicina, chiede spiegazioni e loro rispondono: "Non sei tu quella porno star?”. Le mostrano una foto sul cellulare, è lei, a 16 anni con il suo ex ragazzo, filmati durante un rapporto sessuale. “Sono corsa al gabinetto del bar e ho pianto", spiega Landsem. Gli uomini hanno poi cancellato l'immagine, ma era troppo tardi, aveva già fatto il giro della città.

È nata una cultura degli abusi online

Sono gruppi di uomini che si incitano a vicenda. Su Telegram, regno prediletto per gli sciacalli che vogliono sporcarsi le mani mantenendo l’anonimato, ci sono gruppi (con circa 900 membri), dove gli iscritti inviamo messaggi come: “condividere ciò che hai”, “qualcuno ha ”, "Se qualcuno vuole fare trading, DM".

La UK Revenge Porn Helpline l’ha definita cultura del collezionista. “È diventato una specie di hobby” afferma Julia Słupska, dottorata in sicurezza informatica presso l'Oxford Internet Institute. Ruth Lewis, sociologa e coautrice di Digital Gender-Sexual Violations, aggiunge “gli uomini che praticano l’upskirting, ovvero scattare una foto della gonna di una donna senza il suo consenso , vogliono principalmente ottenere complimenti da altri uomini “. La donna è quasi irrilevante, "è solo una valuta."

Lare McGlynn, professoressa di legge alla Durham University, descrive l'abuso di immagini digitali come "una cultura maschile che premia chi tratta male le donne”. Stiamo parlando di potere e controllo. "Il partner che scatta una foto alla sua ragazza quando è sotto la doccia e poi la invia a qualcun altro, è solo perché può, e vuole farlo."

Un fenomeno ancora in crescita

"Stiamo vedendo sempre più contenuti", ha affermato Sophie Mortimer, manager della UK Revenge Porn Helpline, il loro carico di lavoro è salito a un record di 3.146 casi nel 2020.  D’altronde diffondere immagini sessuali è semplicissimo e non ci sono dei veri e propri ostacoli. Basta caricare le foto e poi condividerle. "Dobbiamo agire in modo globale", ha affermato Mortimer. "Perché è così che funziona Internet, è una cosa globale". Per ora manca una rete forte capace di perseguire i crimini sessuali digitali e regolamentare le aziende tecnologiche.

E poi c’è un problema di percezione. Il fenomeno cresce ma senza fare troppo rumore. Oltre alla disattenzione delle istituzioni si aggiunge lo stigma ad oscurare tutto. C’è infatti chi sceglie di non denunciare per vergogna, o sensi di colpa, e per questo le vittime sono riluttanti a chiedere giustizia.

Anche Landsem, ci ha messo quasi due anni per denunciare il suo ragazzo, e, nonostante avesse fornito alla polizia le prove dell’abuso il caso era stato archiviato. “Ero depressa, non volevo che nessun altro sperimentasse una cosa simile, così ho iniziato a guardare la legislazione e capire come aiutare gli altri". (Alla fine, l'ex di Landsem è stato multato per aver diffuso materiale pornografico.)

Le leggi sono deboli

Il lavoro di Landsem ha anche creato una breccia dal punto di vista legale. Nel 2017  vennero “a galla” le immagini di Nora Mørk, giocatrice di pallamano della nazionale, nuda. Il caso ha innescato un dibattito nazionale e, nell’estate del 2021, la Norvegia ha reso la diffusione di immagini intime un crimine punibile con un massimo di un anno di reclusione, due se l'abuso è "sistematico" o "organizzato". Ma c’è ancora molto lavoro da fare.

Nel Regno Unito il crimine è difficile da perseguire, è necessario infatti provare la volontà di ferire una persona intenzionalmente, altrimenti non può essere classificato come abuso. Anche in Paesi con leggi più solide contro la diffusione di immagini intime è difficile portare i casi in tribunale. In Italia il reato è punibile con la reclusione (da uno a sei anni) e con una multa dai 5.000 ai 15.000 euro. Anche in Francia, che prevede fino a due anni di reclusione e 60.000 euro di multa. Ma, come spiega Rachel-Flore Pardo, avvocato e co-fondatrice dell'organizzazione Stop Fisha, che aiuta le vittime di abusi la legge non è ancora adeguatamente implementata.

I passi falsi dell’Unione europea

Qualche mese fa, l'Ue si è avvicinata all'adozione di una legge fondamentale per aumentare la pressione sui siti web che pubblicano contenuti pornografici. Ma, durante l'ultimo tratto di contrattazione politica a tarda notte, il relativo articolo 24b del Digital Services Act(DSA) è scomparso dal testo.

Sembra che una nuova direttiva europea contro la violenza sulle donne sia attualmente in lavorazione, ma, secondo Alexandra Geese, un eurodeputato verde che lotta per la causa, “non morde”. Le vittime, ha sottolineato, sarebbero comunque lasciate con l'onere di inseguire le immagini e dimostrare chi le ha caricate, "il che è praticamente impossibile".

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