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Intelligenza artificiale (IA)

C’è un motivo per cui le immagini artificiali ci fanno così paura: l’IA ha creato un nuovo genere horror

Le immagini e i video che l’intelligenza artificiale sputa fuori sono il prodotto della nostra stessa cultura, remixata e amplificata. Da un lato giocano con il nostro subconscio collettivo, dall’altro evocano sentimenti di inquietudine e un’estetica body horror dove sono le macchine a scomporre i corpi umani. Prende così forma il meta-horror dell’IA.
A cura di Elisabetta Rosso
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"Mi sono dimenticata di raccontarti un incubo strano che ho fatto", mi dice Sara posando il caffè sul tavolo. È una mia collega, stiamo facendo colazione e comincia a descrivermi nel dettaglio uno strano sogno fatto la scorsa notte. "Eravamo tutti in ufficio e a un certo punto si spengono le luci, mi viene incontro questo mostro strano”, dice, “aveva gli occhi vitrei e la faccia bianca che cambiava in continuazione e si deformava". Si ferma. “Tipo, come nei video dell’intelligenza artificiale”. Annuisco, ho capito benissimo a cosa si riferisce. È bastato citare l’IA per immaginarmi il mostro di Sara. Il motivo è molto semplice: l'intelligenza artificiale ha creato una sua estetica horror riconoscibilissima.

Chiunque abbia provato a giocare con un generatore IA a un certo punto si è trovato di fronte a immagini strane. Espressioni plastiche, mani con sette dita, facce che si sciolgono, gambe al posto sbagliato. Questi errori delle macchine nel processo di generazione ci inquietano. E non solo perché sono legati a un'estetica angosciante, c'è infatti un'ambiguità ontologica, ovvero l'incertezza sull'origine e l'essenza delle immagini e video creati con l'IA.

Siamo di fronte a una primitiva rete di neuroni digitali che sputa fuori mostri. Le immagini e i video che l'intelligenza artificiale crea sono il prodotto della nostra stessa cultura, remixata, amplificata e rotta. Da un lato giocano con il nostro subconscio collettivo, dall'altro evocano sentimenti di inquietudine e un'estetica body horror dove però sono le macchine a scomporre i corpi umani. Prende così forma il meta-horror dell'IA. A spaventarci non sono semplicemente i risultati ma il processo, i software sono infatti agenti attivi della creazione. E se anche l’intelligenza artificiale non conosce la paura, sa perfettamente come farcela provare.

Il subconscio collettivo dell’intelligenza artificiale

C’è un motivo se i mostri dell’intelligenza artificiale muovono una forma di inquietudine diversa. Secondo Carl Gustav Jung l’horror funziona perché “attinge ad archetipi primordiali sepolti in profondità nel nostro subconscio collettivo". Con l’addestramento delle macchine, che usano milioni di dati recuperati dal web, il subconscio collettivo non è mai stato così facile da raggiungere. 

Molte clip horror AI traggono ispirazione dall'estetica online come il weirdcore per evocare sentimenti di ansia e immagini inquietanti che fanno parte del DNA di Internet. L'intelligenza artificiale diventa quindi un substrato tecnologico su base umana che deforma paure collettive, riflettendo sull’interfaccia del chatbot mondi speculari. Sembra quindi di attingere a un subconscio umano che non abbiamo ancora capito. Diventa così l'ignoto dell'ignoto.

L'evoluzione dell'Uncanny Valley

Nonostante l'addestramento di origine "umana", persiste l'elemento artificiale. E infatti l'estetica dell’IA piò essere considerata il gradino successivo dell’Uncanny Valley: quella sensazione di disagio che proviamo di fronte a robot troppo simili agli esseri umani. Il termine è stato coniato negli anni ‘70 da Masahiro Mori. Secondo il professore di robotica, quando qualcosa di artificiale assume tratti troppo umani scatta una reazione psicologica negativa, una forma di repulsione mossa da un senso di inquietudine.

Prima ancora, nel 1906, lo psichiatra tedesco Ernst Jentsch nel suo saggio “Riguardo la psicologia del perturbante” aveva analizzato il fenomeno. Per Jentsch il perturbante è una sensazione di incertezza innescata dalla diffidenza nell'accettare qualcosa che non è familiare. Le AI generative hanno superato questo confine. Creano corpi umani con proporzioni impercettibilmente sbagliate. Volti perfetti, ma con uno sguardo vuoto, o mani con sei dita.

L’horror del nonsense logico

Ad amplificare l’inquietudine dell’Uncanny Valley c’è la logica compromessa. I generatori IA spesso producono composizioni visivamente coerenti ma con elementi fuori posto. Il cervello cerca un senso, e non lo trova. Questo spaesamento genera disagio. È un nuovo tipo di orrore semiotico, che non ha bisogno di sangue o mostri. Incarna quello che Mark Fisher definisce "weird" nel saggio "The weird and the eeire", è ciò che non appartiene a questo mondo, ma appare comunque in esso.

Come insegnano i maestri dell’horror l’ambiguità è preziosissima. Una figura sfocata, un'ombra nel posto sbagliato, una scena interrotta a metà, sono elementi costringono il nostro cervello a riempire i vuoti, spesso evocando qualcosa di ancora più spaventoso.

La mutazione e il body horror

C'è un protagonista indiscusso nelle immagini horror create dall'intelligenza artificiale: il corpo umano. Ventri che si sciolgono, gambe fuori posto, bocche che spaccano i volti, pelle marcescente, dita fuse. I corpi generati dall’IA spesso sembrano in mutazione, instabili e post-umani. L’horror si sposta così dal “mostro” verso una biologia disordinata: carne, pelle, tessuti che non stanno dove dovrebbero.

Le immagini AI spesso sfociano nel body horror per un motivo molto semplice: l’umano è tra gli elementi più rappresentati online. Eppure l'IA “non capisce” cosa sia un corpo coerente, ma lo assembla in base a pattern ricorrenti nei dati. Tende a trattare la pelle, i muscoli, le ossa come materiali plastici o modulari, da ricombinare. In questo modo il corpo umano diventa un assemblaggio artificiale, un collage di carne. Sembra un'estensione del body horror di David Cronenberg, pensiamo ai corpi mutanti in Videodrome o The Fly, ma con una freddezza digitale.

Molte immagini fatte con l'intelligenza artificiale mostrano ripetizioni disturbanti di tratti umani: troppi occhi, troppe bocche, troppe mani. Questo meccanismo evoca l’abietto – una reazione psicologica di rifiuto e disgusto verso ciò che viola i confini dell’identità e dell'ordine – descritto da Julia Kristeva, un concetto centrale nel body horror. Il corpo diventa così il nuovo campo di battaglia per l'horror delle macchine. E se il corpo umano, per l’IA, è solo una texture, quando sbaglia, ci ricorda quanto siamo fragili.

Meta-orrore: l'incubo siamo noi

L’IA genera paura non solo nel contenuto, ma nel suo essere agente attivo della creazione. L’orrore non è solo nel risultato ma, soprattutto, nel processo. Perché siamo noi gli input – almeno per ora – di ogni immagine creata con l'intelligenza artificiale, ma, al di là del prompt che noi usiamo, il prodotto (che sia per mancanza di dettagli o per allucinazioni della macchina) è qualcosa che riconosciamo solo in parte. Non solo. L’IA tende a generare immagini disturbanti, anche quando non richiesto esplicitamente, soprattutto quando il prompt è vago. Questo "errore" è dovuto al “latent space contamination”, cioè la presenza di associazioni visive (es. volti deformati, arti fusi, occhi multipli) apprese durante l’addestramento.

Per darci una risposta dobbiamo tornare all’origine, all'addestramento, quindi agli esseri umani. L'horror dei software ci insegna che l’incubo siamo noi. Le macchine sono specchi distorti. Loro apprendono da noi, dal nostro inconscio collettivo immagini, racconti, archetipi. E se abbiamo paura, forse, è anche perché non ci piace ciò che vediamo riflesso. Per citare Fisher: “L’orrore non sta nell’apparizione del perturbante, ma nel riconoscere che il perturbante è sempre stato dentro di noi.”

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