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Questa molecola inverte e riduce i sintomi dell’Alzheimer in test di laboratorio: è molto promettente

Ricercatori brasiliani hanno dimostrato che un composto chiamato L10 (una piccola immina) è in grado di abbattere neuroinfiammazione e stress ossidativo nel cervello di modelli murini affetti da Alzheimer, migliorando sensibilmente le prestazioni nei test di memoria. Come agisce questa semplice molecola e perché è considerata molto promettente per i test sull’uomo.
A cura di Andrea Centini
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I ricercatori hanno identificato un composto semplice e sicuro in grado di ridurre e invertire i sintomi dell'Alzheimer in test di laboratorio. Si tratta di una molecola appartenente alla classe delle immine, ovvero un composto organico con un doppio legame tra azoto e carbonio, progettato per rimuovere gli ioni rame dalle placche di beta amiloide e favorirne la degradazione. Le placche amiloidi, come indicato dalla Alzheimer Association, sono proteine che assieme ai grovigli fibrillari di tau si accumulano nel cervello dei pazienti e sono strettamente associate alla neurodegenerazione. Non è chiaro se siano causa o conseguenza della patologia, tuttavia è stato dimostrato che anticorpi monoclonalicome il Lecanemab – che colpiscono queste placche, se somministrati precocemente sono in grado di rallentare sensibilmente il declino cognitivo.

L'immina, chiamata L10 dagli scienziati, è stata in grado di abbattere la neuroinfiammazione e lo stress ossidativo, migliorando al contempo i test di memoria. Al momento è stata testata solo su topi affetti dalla forma murina dell'Alzheimer, pertanto non è certo che possa determinare i medesimi i risultati nell'essere umano, ciò nonostante i risultati sono stati estremamente positivi, inoltre la molecola è risultata sicura e ben tollerata. Alla luce di ciò gli scienziati hanno già depositato la richiesta di brevetto e stanno cercando attivamente contatti con le case farmaceutiche al fine di avviare la sperimentazione clinica, cioè i test sull'uomo. L10 potrebbe essere uno dei composti più preziosi per combattere la demenza, che secondo i dati dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) colpisce circa 44 milioni di persone di tutto il mondo. Il dato è destinato a triplicare entro il 2050, secondo alcune stime, principalmente a causa dell'invecchiamento della popolazione.

A scoprire l'immina L10 e a determinarne l'efficacia è stato un team di ricerca brasiliano guidato da scienziati brasiliani del Centro di scienze naturali e umanistiche dell'Università Federale ABC-UFABC, che hanno collaborato a stretto contatto con i colleghi del Dipartimento di Chimica dell'Università Federale di São Carlos-UFSCar. I ricercatori, coordinati dalla professoressa Giselle Cerchiaro, docente presso il Laboratorio di biochimica dei metalli e stress ossidativo dell'ateneo di San Paolo, hanno identificato il composto dopo una serie di esperimenti, che hanno coinvolto simulazioni al computer (in silico), test su cellule in coltura e animali vivi.

I ricercatori si sono concentrati sulla sintesi di otto immine (da L03 a L10) e su un composto basato sulla chinolina (chiamato L11) perché si tratta di chelanti del rame, ovvero molecole che si legano con questo metallo e formano composti stabili. Studi precedenti avevano dimostrato che il rame influenza in modo significativo le placche amiloidi, come spiegato dalla professoressa Cerchiaro in un comunicato stampa dell'Agenzia FAPESP: “Circa un decennio fa, studi internazionali hanno iniziato a evidenziare l'influenza degli ioni rame come aggregatori di placche beta-amiloidi. Si è scoperto che mutazioni genetiche e alterazioni degli enzimi che intervengono nel trasporto del rame nelle cellule potrebbero portare all'accumulo dell'elemento nel cervello, favorendo l'aggregazione di queste placche. Pertanto, la regolazione dell'omeostasi del rame è diventata uno dei focus per il trattamento dell'Alzheimer”, ha sottolineato la biochimica.

Alla luce di queste premesse i ricercatori hanno sintetizzato composti potenzialmente in grado di rimuovere il rame dalle placche di beta amiloide, iniziando la caccia con simulazioni al computer. Dai test è emerso che L09, L10 e L11 sono risultati i più efficaci. Dopo averli somministrati su cellule in coltura, i ricercatori hanno osservato che L09 e L10 presentavano una bassa tossicità fino a concentrazioni di 500 μM, riducendo “la perossidazione lipidica e il danno al DNA indotti dagli oligomeri di beta-amiloide a concentrazioni inferiori”. D'altro canto L11 è risultato più tossico, nonostante la significativa riduzione del danno al DNA.

Test successivi con topi affetti da Azheimer hanno dimostrato che la molecola migliore di tutte era proprio L10, essendo in grado di ridurre sensibilmente la neuroinfiammazione e lo stress ossidativo, oltre a ripristinare livelli equilibrati di rame nell'ippocampo (la prima parte del cervello colpita dalla neurodegenerazione e strettamente connessa alla memoria). Non a caso L10, che è molto piccola e può attraversare agevolmente la barriera ematoencefalica, ha migliorato molto anche le prestazioni dei topi nei test all'interno del labirinto di Barnes, che è in grado di evidenziare le capacità della memoria visiva e spaziale.

Poiché non tutti i pazienti affetti da Alzheimer hanno squilibri che coinvolgono il rame, probabilmente il farmaco sperimentale sarà efficace solo in una parte dei pazienti; non resta che attendere la sperimentazione clinica per sapere se questa molecola possa essere realmente efficace contro la più diffusa forma di demenza. I dettagli della ricerca “Novel Copper Chelators Enhance Spatial Memory and Biochemical Outcomes in Alzheimer’s Disease Model” finanziata da FAPESP (Fondazione di sostegno alla ricerca dello Stato di San Paolo) sono stati pubblicati sulla rivista scientifica ACS Chemical Neuroscience.

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