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Il lato oscuro del colpo di testa: studio svela l’inquietante effetto sul cervello dei calciatori

Analizzando il cervello di centinaia di calciatori attraverso una sofisticata tecnica di imaging cerebrale, i ricercatori hanno scoperto che chi colpisce spesso di testa presenta alterazioni a livello della corteccia cerebrale. Ciò si riflette anche in prestazioni cognitive peggiori.
A cura di Andrea Centini
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Il colpo di testa è uno dei gesti atletici più spettacolari del gioco del calcio, soprattutto se si conclude con uno splendido gol alle spalle del portiere, magari all'incrocio dei pali. Ma come sa bene chi ha praticato questo sport, colpire il pallone con la fronte mentre viaggia a grande velocità non è esattamente piacevole: l'impatto può essere piuttosto duro e finanche doloroso. Un nuovo studio pubblicato sull'autorevole rivista scientifica JAMA Open dimostra che tale esercizio non è affatto innocuo e non si limita al fastidio del momento, soprattutto per chi lo esegue spesso: è stato infatti determinato che colpi ripetuti determinano la deformazione di una specifica regione del cervello, più precisamente della corteccia cerebrale, che a sua volta si riflette in una riduzione delle prestazioni cognitive.

A rendere questo studio particolarmente interessante vi è il fatto che le anomalie riscontrate hanno delle analogie con l'encefalopatia traumatica cronica (CTE), una malattia neurodegenerativa che può innescarsi nelle persone esposte a ripetuti traumi cranici, come ad esempio i pugili o i giocatori di football americano. In parole semplici, non si esclude che le alterazioni innescate dai continui colpi di testa, apparentemente senza conseguenze, possano essere la miccia per una condizione più severa, tenendo in considerazione che anche nei soggetti sani sfociano in un riduzione delle capacità cognitive, in particolar modo della memoria e dell'apprendimento.

A determinare che i colpi di testa nel gioco del calcio alterano una regione del cervello e riducono le prestazioni cognitive è stato un team di ricerca statunitense guidato da scienziati dell'Albert Einstein College of Medicine di New York e dell'Università Columbia, che hanno collaborato a stretto contatto con i colleghi di diversi istituti. Fra quelli coinvolti il Dipartimento di Radiologia del Columbia University Irving Medical Center, il Dipartimento di Psicologia della Fordham University, la società Medcurio Inc di Oakland e altri. I ricercatori, coordinati dal professor Michael Lipton, docente di radiologia e ingegneria biomedica presso il Vagelos College dell'ateneo newyorkese, sono giunti alle loro conclusioni dopo aver messo a punto una nuova tecnica di risonanza magnetica per immagini a diffusione (dMRI). Quella standard, infatti, è efficace nell'analizzare le strutture in profondità, ma quella sviluppata dagli studiosi permette di analizzare anche gli strati superficiali delle pieghe del cervello. Nello specifico, si sono concentrati sull'interfaccia orbitofrontale tra materia grigia e materia bianca (GWI) della corteccia cerebrale, che svolge un importante ruolo nelle funzioni cognitive.

Per lo studio gli scienziati hanno arruolato 352 giocatori di calcio dilettanti adulti (tra i 18 e i 55 anni) e li hanno sottoposti alle scansioni cerebrali per valutarne le condizioni microstrutturali. I ricercatori hanno osservato che coloro che colpivano più di testa presentavano un maggiore assottigliamento dell'interfaccia GWI, laddove la separazione tra materia grigia e materia bianca risultava più sfumata, invece che netta come si nota nelle persone che non prendono questi colpi alla testa. Secondo gli esperti queste microlesioni si sviluppano come una sorta di livido innescato dall'impatto col pallone.

“Abbiamo esaminato questa interfaccia perché la materia bianca e quella grigia hanno densità diverse e si muovono a velocità diverse in risposta all'impatto con la testa”, ha dichiarato il professor Lipton in un comunicato stampa. “Questo crea forze di taglio tra i due tipi di tessuto, rendendo l'interfaccia tra i due strati vulnerabile alle lesioni”, ha aggiunto l'esperto. “Negli individui sani, si verifica una netta transizione tra questi tessuti. Qui abbiamo studiato se un'attenuazione di questa transizione possa verificarsi con impatti minori causati dalla testa”, gli ha fatto eco la coautrice dello studio Joan Song.

Nei gran colpitori di testa, che eseguivano il gesto almeno 1.000 volte all'anno, la deformazione della GWI è risultata più marcata. Ma non solo. Sottoposti a test cognitivi, questi calciatori, pur essendo sani, mostravano prestazioni cognitive peggiori nei test di memoria e apprendimento rispetto a chi praticava sport senza collisioni alla testa. “Ciò che è importante del nostro studio è che dimostra, per la prima volta, che l'esposizione a ripetuti impatti alla testa provoca specifici cambiamenti nel cervello che, a loro volta, compromettono la funzione cognitiva”, ha affermato il professor Lipton. Ora sarà importante studiare la potenziale correlazione di queste microlesioni con la CTE. I dettagli della ricerca “Orbitofrontal Gray-White Interface Injury and the Association of Soccer Heading With Verbal Learning” sono stati pubblicati su JAMA Open.

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