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Cosa si scopre dal DNA sulla scena del crimine, il genetista: “Risultati impensabili fino a 30 anni fa”

Il DNA può essere identificato dagli anni ’50, ma è solo di recente che è diventato decisivo nelle indagini. Il professor Paolo Fattorini, presidente dell’Associazione dei Genetisti Forensi Italiani, spiega cos’è una metodica di analisi genetica e cosa la rende di successo.
Intervista a Paolo Fattorini
Presidente dell'Associazione dei Genetisti Forensi Italiani
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Sempre più spesso la risoluzione dei casi di cronaca nera arriva da riscontri genetici. Quante volte, ad esempio, un indagato di un caso di omicidio viene incastrato dalla prova regina, che altro non è che il ritrovamento di tracce del suo DNA sulla scena di crimine (ovviamente sostenuta dagli altri elementi emersi dalle indagini). In realtà, non è sempre stato così: in passato la prova regina era la confessione dell'autore del reato, ma l'arrivo e lo sviluppo della genetica forense ha rivoluzionato il modo in cui vengono condotte le indagini.

La genetica forense è infatti un ramo della genetica che applica le tecnologie e gli strumenti tipici dell'analisi genetica alla ricerca di prove biologiche e informazioni rilevanti all'interno delle indagini criminali. Anche in Italia, negli ultimi trenta anni abbiamo assistito a casi di cronaca che hanno fatto scuola da questo punto di vista: primo tra tutti, l'omicidio di Yara Gambirasio, è stato il delitto in cui è stato realizzato il più grande screening genetico di sempre in Italia: sono stati effettuati circa 20.000 test del DNA per individuare la persona corrispondente a "Ignoto 1", poi identificato in Massimo Bossetti.

Ora, la risoluzione di questo caso, come quelli di altri omicidi avvenuti in questi anni, è stata possibile proprio grazie alla genetica forense. Per capire come le nuove tecnologie stanno cambiando questa disciplina e cosa questo potrebbe significare per le indagini, Fanpage.it ha contattato il professor Paolo Fattorini, presidente dell'Associazione dei Genetisti Forensi Italiani, affiliata a SIMLA (Società Italiana di Medicina Legale e delle Assicurazioni) e docente di Medicina legale del Dipartimento di Scienze mediche, chirurgiche e della salute dell'Università di Trieste.

La genetica forense nasce con l'arrivo del DNA nelle indagini?

Quella che oggi chiamiamo genetica forense un tempo era l'ematologia forense, che esisteva già agli inizi del ‘900, quando si iniziò ad applicare lo studio dei gruppi sanguigni e in genere del sangue alle indagini forensi. Ovviamente però le possibilità analitiche di allora erano veramente ristrette. Poi le cose sono cambiate in modo netto attorno alla fine degli anni '80, i primi anni '90.

Cos'è successo?

Abbiamo avuto uno sviluppo esponenziale di metodiche, di strumenti disponibili. Un'evoluzione davvero importante sia a livello scientifico che tecnologico che ci permettono di fare quello che stiamo facendo adesso.

Queste nuove tecnologie possono essere utilizzate anche per casi avvenuti in passato?

Non solo. Le tecnologie attuali, ossia quelle che sono attualmente a disposizione, vengono utilizzate anche per risolvere casi di interesse storico o perfino di interesse archeologico. Quindi la tecnologia ormai c'è, poi va applicata a quelli che sono gli ambiti di interesse.

Ci può fare un esempio?

Ad esempio, attraverso le attuali tecnologie genetiche è possibile analizzare le mummie antiche e stabilire i rapporti di parentela tra due mummie vicine. Ormai disponiamo di tecnologie che ci permettono di fare cose che trenta anni fa non erano nemmeno concepibili.

Spesso pensiamo che le analisi genetiche sulla scena del crimine servano a trovare il DNA del colpevole. Ma possono avere anche altri scopi?

Certo. Alcune metodiche di genetica forense permettono di stabilire, anche se ovviamente è chiaro che ci sono dei limiti come in tutte le analisi, si può stabilire l'età biologica di un campione ossia stabilire se quel determinato campione di sangue appartiene a un soggetto di 30, 50 o 70 anni.

Inoltre ci sono altre analisi, le cosiddette diagnosi generiche, che servono a stabilire la natura di un campione altrimenti non decifrabile: se è costituito da saliva, piuttosto che da sperma oppure sudore.

Ma cosa ha reso possibile identificare il DNA in ambito forense?

Guardi, è sempre stato possibile identificare il DNA, praticamente lo è da quando è stato scoperto nel 1953 da James Watson e Francis Crick. Ma per poterlo utilizzare nella pratica abbiamo dovuto aspettare Kary Mullis che negli anni '80 mise a punto la metodica PCR (Polymerase Chain Reaction o reazione a catena della polimerasi) che gli fece vincere il Nobel per la chimica nel 1993.

Questa metodica, che infatti oggi viene utilizzata in tutti gli ambiti diagnostici, non solo in medicina legale, ci ha permesso infatti di utilizzare pochissimo materiale biologico, in quanto amplifica il DNA, ottenendo da questo moltissime informazioni, in tempi rapidi, in modo attendibile e a costi assolutamente contenuti. Prima invece era necessario disporre di campioni importanti altrimenti non erano utilizzabili per la ricerca del DNA.

Si sta lavorando allo sviluppo di nuove tecnologie o metodiche interessanti?

Ovviamente, i progressi ci sono costantemente, ma bisogna aspettare di vedere come sarà valutata l'applicabilità nei casi concreti. Voglio dire non basta che venga sviluppata una nuova metodica, bisogna anche vedere se poi verrà effettivamente utilizzata nella routine.

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