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Covid 19

Cosa c’entra il Covid col Dna dei Neanderthal: lo studio Origin spiegato da Giuseppe Remuzzi

Il Direttore dell’Istituto Mario Negri a Fanpage.it: “Una regione del genoma umano arrivata a noi dai Neanderthal predispone al Covid grave. Ora possiamo sapere se un paziente è a rischio e studiarla per sviluppare nuovi farmaci”.
Intervista a Giuseppe Remuzzi
Direttore dell'Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri IRCCS di Milano
A cura di Valeria Aiello
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Lo studio Origin, che ha visto i ricercatori dell’Istituto Mario Negri di Milano impegnati nella ricerca di una relazione tra genetica e Covid grave, ha permesso di arrivare all’identificazione di una specifica regione del DNA umano che aumenta il rischio di sviluppare forme severe della malattia. Questa regione si trova sul cromosoma 3, dove alcune varianti di tre dei sei geni presenti (CCR9 e CXCR6, responsabili di richiamare i globuli bianchi e causare infiammazione durante le infezioni, e LZTFL1, che regola lo sviluppo e la funzione delle cellule epiteliali nelle vie respiratorie) possono condizionare il diverso sviluppo della malattia. “Sono un aplotipo di rischio, un gruppo di variazioni di questi geni che si ereditano tutte insieme – spiega a Fanpage.it il professor Giuseppe Remuzzi, Direttore dell’Istituto Mario Negri – . La cosa sconvolgente è che questo aplotipo è arrivato a noi direttamente dai Neanderthal, dopo essere passato attraverso duemila generazioni almeno”.

Vuol dire nel nostro DNA ci sono geni di ominidi estinti che oggi influenzano il rischio di Covid grave?
È proprio così. E lo abbiamo dimostrato nei residenti delle aree della bergamasca più colpite dalla pandemia: questo gruppo di variazioni genetiche che arriva dai Neanderthal si associa in modo significativo con il rischio ammalarsi di Covid e Covid grave. Questo significa che, chi è stato esposto al virus ed è portatore di questo aplotipo, ha più del doppio del rischio di sviluppare polmonite interstiziale e Covid grave, e più di tre volte di aver bisogno di terapia intensiva. E un rischio ancora maggiore di ventilazione meccanica.

Come sappiamo che questo aplotipo arriva dai Neanderthal?
Lo sappiamo dagli studi di Svante Pääbo che, tra l’altro, proprio quest’anno ha vinto il Nobel per le sue ricerche sul DNA fossile. In particolare, dal sequenziamento del DNA dei Neanderthal sappiamo che sul cromosoma 3 c’è questo aplotipo, le cui caratteristiche sono quelle che troviamo associate al Covid grave.

Come siete arrivati a capire la relazione tra questa regione del DNA e il Covid grave?
Abbiamo raccolto informazioni cliniche e storia familiare di quasi 10.000 persone, da cui abbiamo selezionato tre gruppi assolutamente identici per caratteristiche cliniche e fattori di rischio: 400 avevano avuto una forma grave di malattia, 400 una forma lieve e 400 non si erano infettati.

Il DNA di tutte queste persone ci ha consentito di studiare migliaia di polimorfismi, che sono siti di variazioni genetiche, e ci siamo concentrati sui 130mila che governano l’ingresso del virus nelle cellule, i 24mila che hanno a che fare con la risposta immune e i 16mila che hanno a che vedere con la severità della malattia e le sue complicanze. In tutto, abbiamo studiato quasi 9 milioni di variazioni per ciascun individuo.

I risultati di tutto questo, che iScience ha pubblicato in questi giorni, dimostrano che l’aplotipo dei Neanderthal, che comprende varianti dei geni CCR9 e CXCR6 che codificano per recettori delle citochine (i messaggeri e mediatori dell’infiammazione) e del gene LZTFL1, che regola lo sviluppo e la funzione delle cellule epiteliali delle vie respiratorie, si associa alla malattia grave.

Quali sono i punti di forza di quest’indagine?
Sono il rigore metodologico e i numeri dello studio. Come le dicevo, abbiamo avuto la possibilità di studiare milioni di variazioni genetiche all’interno di una comunità che, al momento dell’indagine, viveva nella provincia di Bergamo, un’area che all’inizio del 2020 è stata epicentro della pandemia in Italia e in Europa. A ciò si aggiunge che la quasi totalità delle infezioni che abbiamo preso in esame si è verificata durante la prima ondata, dunque prima che emergessero nuove varianti del virus e prima dell’approvazione di trattamenti salvavita e vaccini.

Uno studio di questo tipo non avremmo potuto farlo in un’area senza una diffusione così elevata di una stessa variante e con gli effetti confondenti di terapie o vaccini, perché non avremmo avuto lo stesso potere statistico per poter verificare ciò che abbiamo dimostrato. Che, se mi permette, non vuol dire che i morti di Bergamo dipendano dall’aplotipo di Neanderthal o che il nostro studio spieghi la ragione delle bare di Bergamo, come interpretato da alcuni. Non è così.

Abbiamo dimostrato che l’aplotipo di Neanderthal predispone a una malattia più grave e che questa regione genetica sopravanza tutte le altre regioni di rischio che sono state trovate dalla comunità scientifica, come quelle che hanno a che fare con il gruppo sanguigno e quelle che regolano la risposta immune al virus, incluso il sistema HLA: certamente hanno una certa importanza ma il loro impatto sul Covid grave risulta essere modesto rispetto alla regione da noi individuata.

A partire da questi risultati, quali sono i prossimi obiettivi della ricerca?
Lo studio Origin arricchisce innanzitutto le nostre conoscenze. Ad esempio, ora possiamo sapere se una persona è portatrice di un aplotipo di rischio, facendo uno studio del DNA, cosa che adesso è abbastanza semplice perché non bisogna andare a guardare migliaia di geni.

E poi, visto che sappiamo quali sono le proteine che questi geni formano o contribuiscono a formare, possiamo studiare in modo più approfondito la funzione di queste proteine. E questo apre anche a prospettive di manipolazione farmacologica, quindi allo sviluppo di nuovi farmaci per il trattamento del Covid grave.

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