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Perché soltanto Trump può impedire che la tregua a Gaza finisca e il genocidio continui

A meno di tre settimane dall’avvio del fragile cessate il fuoco a Gaza, Israele ha lanciato duri raid nella Striscia, mentre Hamas e Tel Aviv si accusano reciprocamente di aver violato l’accordo mediato dal presidente Usa, Donald Trump. Cosa sta succedendo.
A cura di Giuseppe Acconcia
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A meno di tre settimane dall’avvio del fragile cessate il fuoco a Gaza, Israele ha lanciato ancora una volta duri raid nella Striscia, mentre Hamas e Tel Aviv si accusano reciprocamente di aver violato l’intesa in venti punti mediata dal presidente Usa, Donald Trump. Sono oltre 250 i palestinesi uccisi dall’esercito israeliano (Idf) dopo l’entrata in vigore della tregua che ha rappresentato fin qui solo un rallentamento del genocidio in corso a Gaza dopo gli oltre 68mila morti palestinesi dall’inizio della guerra, il 7 ottobre 2023. Solo tra martedì e mercoledì scorsi sono stati almeno cento i morti, tra cui 35 minorenni, nei raid israeliani. Mentre nella mattina di mercoledì è ripresa la pausa del conflitto.

I pretesti per la guerra permanente

Il pretesto addotto dal premier, Benjamin Netanyahu, per proseguire con il suo progetto di guerra permanente che ha come obiettivo la completa cancellazione di Hamas e la fine di qualsiasi aspirazione per i palestinesi di veder nascere uno stato indipendente è, ancora una volta, la mancata consegna dei 13 corpi (su 24) degli ostaggi israeliani nelle mani del gruppo. Gli ultimi resti consegnati all’esercito israeliano da Hamas sarebbero dovuti appartenere a Ofir Tzarfati, il cui corpo era invece stato recuperato da Idf già nel 2023. Non solo, nelle stesse ore, in una sparatoria al valico di Rafah è rimasto ucciso il soldato israeliano, Yona Feldbaum. E così i due episodi hanno innescato i nuovi raid israeliani nella Striscia mettendo a dura prova la tenuta della tregua.

“Sappiamo che Hamas o qualcun altro a Gaza ha attaccato un soldato israeliano. Ci aspettiamo che Israele risponda ma penso che il cessate il fuoco continuerà”, aveva commentato il vicepresidente Usa, JD Vance. Si tratta della seconda grave violazione del cessate il fuoco dopo il 18 ottobre quando due soldati israeliani erano stati uccisi a Rafah. In quell’occasione, Idf aveva usato 153 tonnellate di bombe uccidendo circa cento palestinesi in un solo giorno.

Le accuse reciproche

La destra israeliana sta ricordando in queste ore a Netanyahu che oltre due anni di genocidio a Gaza avevano l’obiettivo di distruggere Hamas. E questo non è avvenuto. In particolare, il ministro radicale, Itamar Ben Gvir, ha chiesto la ripresa della “guerra totale” accusando il premier israeliano di “debolezza”. In altre parole, la fine delle ostilità a Gaza con il cessate il fuoco, voluto da Trump, come previsto, sta mettendo a dura prova la tenuta della coalizione di governo a Tel Aviv e minando la leadership di Netanyahu, già messa in discussione da diffuse proteste di piazza e dalle accuse di corruzione. Dal canto suo, Hamas che, dopo una fase di riforma e la consegna degli armamenti pesanti, potrebbe continuare ad avere un ruolo nella fase di transizione a Gaza, con lo scopo di scongiurare il caos e le uccisioni sommarie per mano di contractors e signori della guerra, ha accusato Israele di "fabbricare falsi pretesti per nuove azioni aggressive a Gaza”. Per il gruppo, sono le autorità israeliane a impedire la ricerca dei corpi degli ostaggi e la piena ripresa della consegna degli aiuti umanitari.

Trump al fianco di Israele

Dal canto suo, il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, impegnato in questi giorni sul fronte della guerra in Ucraina, ha sostenuto che “Israele ha il diritto di rispondere” agli attacchi. Sulla stessa linea, sono arrivate le dichiarazioni del suo vice, JD Vance, che ha però definito le violazioni della tregua a Gaza come delle “scaramucce”. Soltanto Trump può impedire alle autorità israeliane di riprendere la guerra a Gaza con attacchi su larga scala, nonostante Tel Aviv non abbia ottenuto il suo obiettivo principale: la distruzione del movimento che governa Gaza né il suo disarmo, in particolare degli armamenti leggeri in dotazione del gruppo.

I paletti di Trump

Eppure, anche il presidente Usa sembra poco propenso a dare il via libera al suo alleato di ferro nella regione per la continuazione della guerra dopo l’ovazione alla Knesset e prima della sigla dell’accordo di Sharm el-Sheikh in Egitto lo scorso 13 ottobre. Tuttavia, Trump ha assicurato che Israele “non annetterà la Cisgiordania” perché sarebbe un ostacolo per la pace, nonostante il voto in questo senso del parlamento israeliano dello scorso 22 ottobre.

A dimostrazione del controllo continuo che gli Stati Uniti esercitano sulle autorità israeliane proseguono le visite delle più alte cariche Usa in Israele. L’ultimo in ordine di tempo a visitare Gerusalemme è stato JD Vance la scorsa settimana. In quell’occasione il vicepresidente Usa ha negato che Washington stia facendo da “babysitter” di Israele con un monitoraggio continuo della tregua. Ma in realtà è questa l’accusa mossa anche dai politici dell’estrema destra israeliana al governo Netanyahu. In altre parole, Israele è una semplice pedina nelle mani degli Stati Uniti di Trump che possono decidere quando appoggiare le guerre regionali del loro alleato e quando no.

La linea rossa dell’annessione della Cisgiordania

Per esempio, qualsiasi iniziativa che favorisca la prospettiva di un’annessione della Cisgiordania da parte di Israele trova l’opposizione dei paesi arabi vicini. Non solo, sebbene un piano che vada in questo senso certificherebbe la continua erosione territoriale da parte dei coloni israeliani della Palestina che impedirebbe la creazione di uno stato, come auspicato anche nel riferimento alle “legittime aspirazioni nazionali” che si legge nel piano Trump, il completo controllo sulla Cisgiordania metterebbe anche in evidenza i limiti demografici che l’annessione dei territori palestinesi comporterebbe per Israele.

In altre parole, una “Grande Israele” che includesse i territori occupati ma escludesse i palestinesi dalla partecipazione elettorale sarebbe, come è già, la certificazione della finta democrazia israeliana che ammette la pulizia etnica dei nativi e perpetua uno stato di apartheid che esclude permanentemente gli arabi dal dibattito politico, relegandoli a cittadini di seconda classe.

I confini di Gaza

Soprattutto la permanenza di Idf nella Striscia di Gaza mette a dura prova la possibilità che la tregua di Trump possa portare a una soluzione di lungo termine del conflitto. L’esercito israeliano continua a occupare il 53% di Gaza ed è presente sul territorio per ben oltre 500 metri dalla linea gialla, stabilita dal piano di Trump. Il timore è che l’attuale occupazione della Striscia possa diventare il nuovo confine di Gaza estendendo il controllo israeliano su uno dei centri storici più antichi al mondo, calpestando le radici del popolo palestinese che non ha voluto in nessun modo lasciare la sua terra, nonostante la distruzione perpetrata da Idf.

Come se non bastasse, le continue violazioni dei diritti umani da parte israeliana hanno riguardato anche i cadaveri dei detenuti palestinesi consegnati dopo l’accordo. 135 dei corpi restituiti presentano infatti segni di mutilazioni e amputazioni. Secondo l’Organizzazione internazionale della Sanità, sono 15mila i palestinesi che hanno necessità di un’evacuazione immediata per motivi di salute, a causa del collasso del sistema ospedaliero di Gaza, mentre prosegue lo stato di assedio della Striscia dove gli aiuti umanitari non hanno pieno accesso così come avviene per la stampa internazionale. Secondo Medici senza frontiere, per esempio, Israele continua ad usare gli aiuti umanitari come “armi di guerra” mantenendo le restrizioni all’accesso a Gaza, nonostante il cessate il fuoco.

La seconda fase in bilico

E così i nuovi raid israeliani mettono a rischio la seconda fase dell’accordo in venti punti negoziato da Trump, anche in merito al coinvolgimento internazionale per il mantenimento della tregua. Già le autorità israeliane avevano posto il veto alla presenza di squadre turche per la ricerca dei corpi degli ostaggi a Gaza.
In seguito ai raid di martedì di Idf nella Striscia di Gaza, la Turchia ha accusato Israele di aver “apertamente violato” il cessate il fuoco. La Turchia è stato uno dei paesi chiave, insieme a Qatar ed Egitto, per il raggiungimento dell’intesa per il cessate il fuoco. In particolare, Ankara ha una capacità di mediazione che fa leva sia su Israele sia su Hamas e quindi può essere incisiva anche nella fase di formazione della Forza di stabilizzazione internazionale che dovrà entrare in azione nella seconda fase dell’intesa.

I dubbi dei paesi arabi

I primi a sollevare dubbi che in un contesto di guerra si possa arrivare al dispiegamento di una forza militare internazionale di stabilizzazione sono proprio i paesi arabi. “Qual è il mandato delle forze di sicurezza a Gaza?”, si è chiesto per esempio il re giordano Abdullah. Secondo il monarca, se la missione dovesse essere di peace enforcing e non di peacekeeping, nessun paese vorrebbe farne parte. D'altra parte, Egitto e Giordania già si sono resi disponibili a preparare le forze di polizia locale palestinese, ma non vogliono “essere coinvolti nel conflitto”, ha confermato Abdullah.

Simili preoccupazioni sono state più volte avanzate dalla missione di peacekeeping delle Nazioni Unite in Libano (Unifil). Per la prima volte la scorsa domenica i militari che si trovano nel Sud del paese, attaccato da Israele nell’autunno del 2024 e in cui vige un fragile cessate il fuoco, hanno abbattuto un drone israeliano. Secondo Unifil, il drone si stava avvicinando alla città di confine di Kfar Kila in “maniera aggressiva” innescando le “necessarie contromisure difensive”. Per Israele invece, il drone stava portando avanti “attività di intelligence di routine”. Il quartier generale di Unifil ha fatto sapere che la missione andrà avanti nonostante i ripetuti attacchi israeliani.

Se Trump non limiterà i raid di Idf a Gaza, la ripresa del conflitto è alle porte. Il presidente Usa avrebbe potuto estendere la tregua negoziata dall’ex presidente Joe Biden, e conclusasi il primo marzo scorso, chiudendo già allora il sanguinoso genocidio della Striscia. Ma Trump ha dato carta bianca a Netanyahu permettendogli di continuare con il suo piano di pulizia etnica pur non riuscendo a ottenere il completo svuotamento di Gaza. Migliaia di vite potevano essere salvate in questi mesi e così non è stato.

Questo dimostra ancora una volta, come spiegato nel suo ultimo report dalla Relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori occupati, Francesca Albanese, che il genocidio a Gaza è un crimine collettivo che coinvolge i paesi terzi che hanno sostenuto politicamente e fornito armi e aiuti materiali a Israele, a partire dagli Stati Uniti che hanno posto per ben sei volte il loro veto all’Onu per bloccare la richiesta di un cessate il fuoco nella Striscia.

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Giuseppe Acconcia è giornalista professionista e docente. Insegna Stato e Società in Nord Africa e Medio Oriente all’Università di Milano e Geopolitica del Medio Oriente all’Università di Padova. Dottore di ricerca in Scienze politiche all’Università di Londra (Goldsmiths), è autore tra gli altri de “Taccuino arabo” (Bordeaux, 2022), “Le primavere arabe” (Routledge, 2022), Migrazioni nel Mediterraneo (FrancoAngeli, 2019), Il grande Iran (Padova University Press, 2018).
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