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Conflitto Israele-Palestina e in Medio Oriente

Perché la risoluzione approvata all’Onu per Gaza non porterà alla nascita di uno stato palestinese

Con l’astensione di Cina e Russia è passata al Consiglio di Sicurezza dell’Onu la risoluzione Usa che approva il piano di pace di Trump per la Striscia di Gaza: le reazioni di Hamas e della destra israeliana.
A cura di Giuseppe Acconcia
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Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato la seconda fase del piano Trump per Gaza, entrato in vigore lo scorso 10 ottobre. La risoluzione 2803 è passata grazie all’astensione di Cina e Russia che hanno espresso non pochi dubbi sul testo.

L’inclusione di riferimenti al futuro stato palestinese è stato il prezzo che gli Stati Uniti hanno dovuto pagare per avere il disco verde dei paesi arabi al piano Trump e alla formazione della Forza di stabilizzazione internazionale (Fsi) a cui molti paesi arabi dovrebbero contribuire.

Ma perché i vaghi riferimenti allo stato palestinese sono troppo poco dopo il genocidio di 71mila gazawi perpetrato negli ultimi due anni dall’esercito israeliano (Idf)?

I limitati aspetti positivi della risoluzione USA approvata all'Onu

Sicuramente il riferimento alle aspirazioni nazionali palestinesi e all’autodeterminazione sono gli aspetti positivi di questa risoluzione. Tuttavia, si tratta di parole troppo vaghe e di compromesso rispetto alle attese del popolo palestinese. Non solo, l’eventualità della nascita di uno stato è condizionata alla non meglio specificata “riforma” dell’Autorità nazionale palestinese. E così anche i diplomatici europei che a settembre hanno fatto un passo avanti riconoscendo lo stato palestinese, hanno espresso solo un moderato ottimismo.

Per esempio, l’incaricato d’affari britannico, James Kariuki, ha ammesso che gli accordi dovranno essere “implementati nel rispetto del diritto internazionale e della sovranità palestinese”. I diplomatici europei hanno poi sottolineato l’importanza del comitato tecnico palestinese che dovrà occuparsi della governance quotidiana di Gaza, al fianco del così detto Board of Peace, retaggio coloniale, guidato dallo stesso Donald Trump. Eppure, non è ancora chiaro chi prenderà parte a questo comitato tecnico.

Il via libera algerino e il piano di ricostruzione per Gaza

Un altro aspetto positivo è che il testo della risoluzione è stato approvato anche dall’inviato algerino alle Nazioni Unite, Amar Bendjama. L’Algeria è tra i paesi arabi più duramente contrari al riconoscimento di Israele nella regione. “Alcune delle nostre proposte sono state accolte”, ha ammesso Bendjama.

“Siamo favorevoli al mantenimento del cessate il fuoco e alla creazione delle condizioni per permettere ai palestinesi di esercitare i loro diritti all’autodeterminazione”, ha aggiunto.

In particolare, il diplomatico fa riferimento agli annessi alla risoluzione Onu in cui si parla di “stop alle annessioni, all’occupazione e allo spostamento forzato”. Nella risoluzione Onu, si fa anche riferimento al finanziamento della ricostruzione a Gaza da parte di un fondo finanziato dalla Banca Mondiale.

Le reazioni di Hamas

Hamas ha rifiutato il piano definendolo un “meccanismo di controllo internazionale” e insistendo che non procederà con il disarmo. Non solo, Hamas ha avvertito che la Fsi deve solo essere dispiegata “ai confini” e non all’interno della Striscia. “Dare compiti e ruoli a una forza internazionale dentro Gaza per disarmare la resistenza significa trasformarla in una parte del conflitto che favorisce l’occupazione”, ha aggiunto il gruppo.

Secondo la risoluzione, Fsi avrebbe l’autorità di disarmare e smantellare Hamas per creare un’area demilitarizzata. Eppure, non è chiaro quali paesi arabi vorranno accettare queste regole d’ingaggio se dovessero entrare in conflitto con il movimento che governa Gaza, duramente decimato dalla guerra. Non solo, secondo la risoluzione, Fsi lavorerà con Israele ed Egitto insieme a una “nuova” polizia palestinese per permettere il disarmo di tutti i gruppi non-statali, incluso Hamas.

Almeno 200 affiliati del gruppo sono rimasti intrappolati nei tunnel sottostanti alla città di Rafah, oltre la così detta “linea gialla” di demarcazione, stabilita dal piano Trump. Hamas ha assicurato che i miliziani armati non si arrenderanno, dando solo la disponibilità a una cessione limitata di armamenti pesanti. Per l’inviato speciale Usa, Steve Witkoff, sarà necessario offrire ai combattenti del gruppo una via di uscita e l’amnistia.

L'astensione e i dubbi di Russia e Cina

Sia la Russia sia la Cina hanno criticato la risoluzione. Hanno parlato di poca chiarezza nei meccanismi centrali di composizione della Fsi, sostenendo che il piano non assicura la partecipazione delle Nazioni Unite e non fa riferimento in modo chiaro alla soluzione dei due stati.

Ben più duri sono stati i commenti di Craig Mokhiber, ex dirigente Onu per i diritti umani, che ha parlato di “un giorno vergognoso per le Nazioni Unite”. “Nessun membro del Consiglio ha avuto il coraggio e il rispetto del diritto internazionale votando contro l’oltraggio coloniale di Stati Uniti e Israele”, ha continuato. Il diplomatico ha fatto notare che questo piano è stato rimandato al mittente dalla società civile palestinese e dai difensori dei diritti umani.

Le reazioni della destra israeliana

I vaghi riferimenti alla formazione di uno stato palestinese sono bastati per suscitare le dure reazioni della destra israeliana. Il premier Benjamin Netanyahu ha confermato la sua assoluta opposizione facendo presagire solo un parziale sostegno israeliano per il piano. Molto più in là si è spinto il ministro della Sicurezza nazionale di estrema destra, Itamar Ben Gvir, che è arrivato a sostenere che il leader dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), Mahmoud Abbas, dovrebbe essere arrestato e i leader dell’Anp dovrebbero essere uccisi, se si faranno passi avanti nel riconoscimento dello stato palestinese. Finché i politici israeliani useranno questo approccio alla questione della soluzione dei due stati è evidente che l’odio e la politica di pulizia etnica ed eliminazione della popolazione palestinese prevarrà sulla necessità di creare uno stato indipendente.

La pulizia etnica continua

In questo contesto, continua impunemente la pulizia etnica dei palestinesi. Il ministro degli Esteri sudafricano, Ronald Lamola, ha sollevato l’allarme per i recenti arrivi di palestinesi di Gaza come un’“operazione chiaramente orchestrata”. In altre parole, le deportazioni volontarie dei palestinesi continuano con lo scopo di svuotare la Striscia costringendoli a trasferirsi in altre parti del mondo. “Non vogliamo che altri voli arrivino
perché questo è solo parte del piano di pulizia etnica di palestinesi da Gaza e dalla Cisgiordania”, ha proseguito.

Nei giorni scorsi due voli con centinaia di palestinesi erano atterrati in Sud Africa. Le partenze sono state organizzate da organizzazioni poco note pagate dalle autorità israeliane, sottoforma di “ricollocamenti umanitari”.

Idf persevera nella partizione di Gaza

Come se non bastasse, l’esercito israeliano continua ad occupare il 58% di Gaza. E così la divisione di Gaza tra un’area controllata da Idf e una da Hamas è sempre più la realtà sul campo. In altre parole, i piani di ricostruzione potrebbero riguardare le aree controllate da Idf prima di tutto. Molti paesi arabi hanno espresso preoccupazione per le implicazioni che la così detta “linea gialla” può avere per il futuro della Striscia.

La ricostruzione di Gaza potrebbe partire dalla città di Rafah, dove si trovano già 150mila palestinesi, circondati dalla zona cuscinetto israeliana, spingendo i palestinesi a continuare a vivere in uno stato di apartheid in veri e propri campi di concentramento.

Crescono gli assalti dei coloni in Cisgiordania

Come se non bastasse, non si fermano gli attacchi dei coloni in Cisgiordania. Dopo i raid alla moschea Hamida a Deir Istiya, la violenza sembra non avere fine, con il sostegno del governo israeliano. L’annuale raccolta delle olive nelle fattorie palestinesi spesso ha innescato la violenza dei coloni. Ma quest’anno gli attacchi hanno superato tutti i record precedenti con oltre 260 violenze di coloni israeliani o danni alle proprietà dei palestinesi, solo nel mese di ottobre.

Gruppi per i diritti umani hanno sostenuto che l’aggressione dei coloni verso i palestinesi è andata crescendo esponenzialmente dall’inizio della guerra con 3200 casi di spostamenti forzati di palestinesi. Inoltre, l’ong israeliana Yesh Din ha confermato che il 93% delle indagini della polizia israeliana sulle violenze di Idf in Cisgiordania vengono chiuse senza condanne.

Non solo, a conferma delle gravi violazioni dei diritti umani da parte di Tel Aviv, Israele detiene decine di palestinesi di Gaza in isolamento in prigioni sotterranee in uno stato di malnutrizione e senza contatti con i loro familiari. Secondo il Comitato pubblico contro la tortura in Israele (Pcati), due tra loro in particolare sono agli arresti da mesi senza alcuna accusa. Solo alcune settimane fa è stata arrestata Yifat Tomer-Yerushalmi, generale di Idf, per la diffusione del video che ha documentato i gravi abusi commessi sui detenuti palestinesi da parte dei soldati israeliani.

La risoluzione approvata dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite segna le tappe dei prossimi due anni di transizione a Gaza. In particolare, stabilisce la necessità di formare una Forza internazionale di stabilizzazione con funzioni di peacekeeping, di preparare la polizia locale palestinese, di creare un comitato tecnico palestinese e di stabilire il Board of Peace che avrà il compito di coordinare la forza multinazionale.

Tuttavia, tutti i nodi restano irrisolti, a partire dal caos che implicherebbe un’esclusione permanente di Hamas dal governo della Striscia, fino all’occupazione permanente di parte di Gaza da parte di Idf e alla controversa supervisione in stile postcoloniale imposta sulla Striscia.

Ma più di ogni altra cosa, in questa risoluzione, i riferimenti alle aspirazioni nazionali palestinesi sono ancora troppo vaghi e indefiniti, non fanno leva sul superamento dello stato di crescente occupazione dei territori palestinesi, sulla mancanza di continuità degli stessi, sull’assenza di una soluzione per Gerusalemme Est e non condannano il continuo svuotamento della popolazione locale, orchestrato da Israele, per impedire la formazione di un vero stato palestinese.

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Giuseppe Acconcia è giornalista professionista e docente. Insegna Stato e Società in Nord Africa e Medio Oriente all’Università di Milano e Geopolitica del Medio Oriente all’Università di Padova. Dottore di ricerca in Scienze politiche all’Università di Londra (Goldsmiths), è autore tra gli altri de “Taccuino arabo” (Bordeaux, 2022), “Le primavere arabe” (Routledge, 2022), Migrazioni nel Mediterraneo (FrancoAngeli, 2019), Il grande Iran (Padova University Press, 2018).
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