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Conflitto Israelo-Palestinese

“Non perdonerò Hamas ma mi vergogno di Israele, incita al genocidio”: intervista a Michael Sfard

“Sempre più retorica dell’odio”, dice a Fanpage.it l’autore della lettera contro il silenzio dei magistrati sulla “narrativa illegale” dei leader dello Stato ebraico. “Qualcosa cambierà grazie alla Corte dell’Aja, ma il Paese è in un abisso morale”.
A cura di Riccardo Amati
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Michael Sfard
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“Ci vorrà una generazione per rimediare al disastro creatosi nella società israeliana dopo il 7 ottobre e con la guerra a Gaza”: Michael Sfard è considerato un inguaribile ottimista, caratteristica essenziale per chi si occupa di diritti umani. Ma per ora vede nero: “Lo sdoganamento della peggior narrativa anti palestinese è grave perché le parole si traducono sempre in fatti”.

Spera che l’azione del Sudafrica contro Israele di fronte alla Corte internazionale di giustizia possa indurre la magistratura del suo Paese a punire almeno i casi più clamorosi di incitamento al genocidio. Ritiene che dall’attuale tragedia possa poi nascere un progetto di pace. “Ma non perdonerò mai Hamas per il 7 ottobre”, chiarisce.

Sfard proviene da una famiglia di sopravvissuti all’Olocausto. Il suo nonno materno era il sociologo Zygmunt Bauman. I suoi genitori furono espulsi dalla Polonia per aver partecipato alle proteste del 1968. Lui la sua protesta la fece contro l’esercito israeliano: durante il servizio militare finì in galera per essersi rifiutato di far da scorta ai coloni di un insediamento a Hebron.

Allievo del decano israeliano del diritto umanitario Avigdor Feldman, ha sostenuto molti casi contro l’occupazione dei territori palestinesi e difeso decine di obiettori di coscienza israeliani. Rappresenta diverse organizzazioni non governative. Nei giorni scorsi ha redatto la lettera con cui intellettuali, giuristi e scienziati hanno chiesto ai vertici del sistema giudiziario di Israele di intervenire contro leader politici e personaggi pubblici che augurano apertamente, e per ora impunemente, la morte all’intera popolazione palestinese di Gaza e non solo.

Fanpage.it ha raggiunto Michael Sfard in videoconferenza nel suo studio legale a Tel Aviv.

Avvocato, ha visto qualche cambiamento dopo la vostra lettera?

Al contrario, ho visto un maggior incitamento all’odio, sempre più retorica del genocidio. E nessuna condanna politica o giudiziaria. Nessuna azione per delegittimare questa narrativa. Ma nei prossimi giorni qualcosa succederà. Non tanto per motivi morali quanto perché il Sudafrica ha iniziato un procedimento di fronte alla Corte internazionale di giustizia (nota anche come “Corte dell’Aja”o Cig, è il principale organo giudiziario dell’Onu, ndr). E Israele si renderà conto di quanto questa propaganda violenta possa costare dal punto di vista legale.

La Corte dell’Aja fa paura a Israele?

Le autorità israeliane dovranno far qualcosa perché uno degli argomenti presentati dal Sudafrica è che non solo si sta incitando al genocidio ma che lo si fa con assoluta impunità. È questa l’accusa più grave. Quando si arriverà al dibattimento sul merito, e forse ci vorranno anni, Israele dovrà mostrare di aver sanzionato i comportamenti incriminati. Sennò avrà grossi guai legali.

Ma finora il suo Paese se ne è infischiato, del diritto internazionale. Cambierà atteggiamento?

Israele si è infilato in una trappola. È vero che in passato ha ignorato risoluzioni, decisioni e giudizi internazionali. Ma la Corte dell’Aja è un altro paio di maniche. Una sua sentenza, al contrario di una risoluzione dell’Assemblea dell’Onu, è vincolante. Non solo per il Paese condannato ma anche per le magistrature di tutti i Paesi che accettano la giurisdizione della Cig. Non sarebbe per niente facile per Israele cavarsela scrollando le spalle.

Si era mai immaginato di dover scrivere una lettera per accusare i leader del suo Paese di volere un genocidio?

Sono nato e cresciuto in Israele, ho sempre vissuto qui. E non solo non mi sarei mai immaginato di dover scrivere un documento del genere. Non avrei nemmeno mai immaginato di dover vivere in una società nella quale si può parlare liberamente di annientare un’intera popolazione, di lanciare ordigni nucleari su una regione, di considerare colpevoli tutti gli appartenenti a un popolo. E a farlo non sono quattro fanatici emarginati ma la parte più importante e influente della società stessa.

L’odio è diventato mainstream, per usare un termine brutto ma di moda?

È diventata una narrativa normale e legittima. Ministri, politici, alti gradi dell’esercito e giornalisti parlano così in pubblico. Come israeliano e come ebreo me ne vergogno profondamente. E sono preoccupato per il dopoguerra. Serviranno anni per riparare i danni fatti in questi mesi. Un proverbio ebreo dice: “Servono cento uomini saggi per togliere la pietra che un solo stupido ha gettato nel pozzo”. E noi oggi qui abbiamo a che fare con migliaia di uomini e donne molto stupidi che hanno creato un nuovo standard per quel che è accettabile dire. Ci vorrà una generazione per togliere le pietre dai pozzi.

Cosa è successo alla società israeliana dopo il 7 di ottobre?

Dovremo un giorno spiegarlo al mondo e a noi stessi. Normalmente, quando avvengono calamità del genere, una società reagisce come un istrice: proietta all’esterno i suoi aculei. E così noi israeliani abbiamo accusato il mondo intero di essere antisemita, filo palestinese e anti israeliano.

Sindrome da accerchiamento?

Un tempo facevo il penalista, difendevo persone appartenenti al mondo del crimine. E so bene che quando sei ricercato dalla polizia e sei ossessionato dall’idea che ci possano traditori all’interno del tuo ambiente, adotti un’etica tutta particolare. La società israeliana sta facendo lo stesso. Siamo diventati intolleranti a ogni critica dall’interno. Da tempo con i miei colleghi e amici avvertivamo che Israele si avviava su un terreno scivoloso, nell’etichettare le critiche come “tradimento”. Ma quel che si è visto dopo il 7 di ottobre va ben oltre. Ora ci troviamo in una società in cui le persone vengono addirittura arrestate per aver detto cose che la leadership non vuole udire.

Questa narrativa del sospetto e dell’odio può portare i cittadini ordinari a commettere crimini?

Le parole si traducono sempre in fatti. Per di più, a causa delle prese di posizione immorali e illegali di alcuni dei maggiori politici del Paese, è diventata una nozione comune che un terrorista non debba lasciare la scena del crimine vivo. Nemmeno se è stato neutralizzato. Uccidere un criminale quando non può più nuocere è contro la legge. Ma ci sono molti casi in cui è avvenuto. Poche settimane fa, un civile si è trovato sulla scena di un attentato terroristico a Gerusalemme. Era armato, è intervenuto e ha ucciso i terroristi. Poi, mentre arrivavano i soldati, ha gettato l’arma, si è levato la giacca e ha alzato le mani, perché i militari vedessero bene che non era un criminale e che comunque era inoffensivo. Ebbene, i soldati lo hanno ucciso.

Se questo è il modo in cui i militari intervengono a Gerusalemme, figuriamoci cosa accade ogni giorno a Gaza…

Sono sicuro che accadano continuamente cose simili. Come vuoi che si comportino ufficiali e soldati dopo tutti questi discorsi a livello ufficiale sulla colpevolezza di ogni cittadino della Striscia e sulla necessità di deportarli tutti?

E la politica? Netanyahu si sta aggrappando alla poltrona? Vuol restare al comando anche a costo di danni irreparabili per il Paese?

La politica israeliana ha due pilastri. Il primo è l’occupazione dei territori palestinesi. Negli ultimi dieci anni Netanyahu ha come drogato gli israeliani facendo passare l’idea che non è rilevante: “L’occupazione è un fatto acquisito, non dobbiamo preoccuparci di trovare una soluzione”, era la narrativa. Che ci è scoppiata in faccia. Anzi, è scoppiata in faccia al mondo intero. Responsabile di aver permesso al nostro governo di agire nel modo che ci ha portati fin qui.

E il secondo pilastro?

Si identifica in Netanyahu e nei suoi destini. Il premier ha legittimato istanze fasciste, razziste e ultra nazionaliste, portandole al centro dell’azione politica. Cosa con cui avremo a che fare a lungo anche dopo che se ne sarà andato. E poi Netanyahu ha asservito la politica israeliana ai suoi interessi personali e ai suoi problemi con la giustizia.

Israele ha bisogno di un cambio di leadership?

Certo che sì. Tutti mi considerano un ottimista. Gli atti atroci e disumani perpetrati da Hamas il 7 di ottobre e la successiva guerra però hanno messo a dure prova il mio ottimismo. Ci vorrà una generazione prima di uscirne. Ma può esserci una scorciatoia: una buona leadership. Purtroppo al momento vedo il deserto. Non ci sono leader che siano al contempo carismatici, saggi e umanistici. Ma certo la precondizione per ogni progresso è che Netanyahu esca di scena.

Crede che un nuovo governo potrebbe fermare il movimento dei coloni, uno dei principali ostacoli a un processo di pace?

È possibile. Il problema è il pedaggio da pagare. Era alto negli anni Settanta, è aumentato nei decenni successivi e oggi è diventato altissimo. Ma il prezzo per non agire è ancora maggiore. De Gaulle trasferì un milione di coloni francesi dall’Algeria. E in Sudafrica la democrazia arrivò in seguito agli anni peggiori dell’apartheid. “Le ore più buie sono quelle che precedono l’alba”, dice una famosa canzone israeliana.

Lei è proprio un ottimista. In un suo recente articolo sul quotidiano Haaretz ha citato un poeta israeliano che parla dei “giorni del perdono e della pietà”. Torneranno quei giorni?

Per me l’ottimismo non consiste nel lasciare che le cose vadano meglio. Il mio non è un ottimismo “di pancia”. È razionale. Ci sono molte strade percorribili, e non è irragionevole che alcune di queste portino a situazioni migliori della attuale. Quindi, se c’è un’opzione non irragionevole, devo agire per dargli possibilità di successo. Non dico che le cose andranno certamente meglio. Anzi, sono molto preoccupato. Ma credo che alcuni fatti aprano a possibilità interessanti. Il conflitto israelo-palestinese deve esser risolto. È un fatto incontrovertibile. E ciò significa che alle prossime elezioni israeliane, che sono certo si terranno quest’anno, non ci sarà un singolo partito che non abbia una piattaforma di proposte per risolvere il conflitto. Alle elezioni precedenti nessuno diceva niente, in merito.

Non era considerato un tema importante?

Era considerato irrilevante. E poi oggi c’è il mondo intero che guarda. C’è un consenso nella comunità internazionale sulla necessità di fermare la violenza. E la pressione dall’esterno può avere influenza sulla nostra società. L’ho visto quando abbiamo scritto la nostra lettera di accusa: quando personaggi importanti hanno firmato, allora si è creata la fila. Abbiamo dovuto fermare le sottoscrizioni, a un certo punto. Perché altrimenti non finivamo più.

Ci saranno altre lettere come la vostra?

Sì, glielo posso dare per certo. Da parte di diverse categorie di professionisti. La gente è molto depressa e tende a chiudersi in casa. Ma quando vede accendersi una luce, esce dal privato e fa sentire la sua voce.

Ma allora tutto questo non è stato inutile? Questa tragedia potrebbe essere l’occasione per tornare a parlare di pace? 

Se non troviamo una soluzione pacifica ora, la prossima guerra sarà peggiore. Siamo una specie strana, noi esseri umani. Dobbiamo provare il peggio per cercare di migliorarci. Dovremmo invece fare la cosa giusta comunque, senza dover essere prima sommersi da pene enormi. Fatto sta che nessuno parlava più del conflitto tra israeliani e palestinesi. Adesso è tornato in prima pagina. Ed è arrivato davanti alla Corte internazionale di giustizia.

Forse è quello che voleva Hamas?

Non li perdonerò mai per quel che hanno fatto. Hanno calpestato ogni valore umano. Le lotte di liberazione nazionale condotte con atti di questo genere finiscono per creare entità non democratiche e disumane. La libertà e l’indipendenza non devono essere solo un fine ma anche un mezzo per portare al popolo palestinese libertà, uguaglianza e riconoscimento dei diritti umani.  Se l’occupazione e l’apartheid israeliane venissero sostituite dalla dittatura di Hamas, la tragedia dei palestinesi non sarebbe finita.

Ma il fatto che si sia riproposta la causa palestinese non è una vittoria del terrorismo?

La Palestina è tornata sul palcoscenico mondiale. Ma in che modo? Se la definissimo una vittoria di Hamas, sarebbe una buona cosa per la Palestina? Credo proprio di no.

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