“Nessuna pace finché Israele persegue il suo progetto coloniale in Palestina”: parla lo storico Tariq Dana

Nel discorso pubblico sulla guerra in Palestina, il termine "pace" viene spesso usato per descrivere fragili tregue o cessate il fuoco temporanei. Sta accadendo anche questa vota con il piano preparato da Donald Trump per la Striscia di Gaza, un accordo che pur avendo l'indiscutibile merito di ridurre i bombardamenti non mette in discussione il progetto coloniale israeliano in Palestina.
Come afferma in questa intervista a Fanpage.it Tariq Dana, docente di Conflict and Humanitarian Studies al Doha Institute for Graduate Studies, ogni accordo che non affronti la natura coloniale del conflitto è destinato a fallire: quella in atto infatti non è una disputa tra due nazioni, ma uno scontro tra una potenza occupante e un popolo colonizzato. Di conseguenza solo lo smantellamento delle strutture di apartheid e la fine dell’impunità dello stato ebraico possono aprire la strada a un reale futuro di pace per palestinesi e israeliani.
Secondo Dana, il problema non risiede nell’assenza di negoziati tra le parti, ma nel quadro strutturale che li rende illusori: un sistema di potere fondato sullo spossessamento, sulla frammentazione del territorio e sulla supremazia etnica. Per questo come nel Sudafrica dell’apartheid, solo una pressione internazionale coerente – fatta di boicottaggi, sanzioni e isolamento politico – potrà forzare Israele a smantellare le proprie istituzioni di dominio.
La pace, se e quando arriverà, non sarà il frutto di un compromesso tra due attori equivalenti, bensì il risultato della decolonizzazione della Palestina. Finché il colonialismo d’insediamento resterà la matrice dello Stato israeliano, ogni cessate il fuoco sarà solo una pausa tra un ciclo di devastazione e il successivo.

Professore, come valuta la natura reale di questo cessate il fuoco? Si tratta, a suo giudizio, di un passo verso la pace o di una tregua tattica temporanea?
Non c’è alcuna pace in questo accordo. Anzitutto, si parla di cessate il fuoco, non di tregua; e la differenza è sostanziale. Dopo decenni di negoziati mediati dagli Stati Uniti, la pace rimane irraggiungibile in una struttura segnata da una profonda asimmetria di potere e da una colonizzazione tuttora in corso. Quello a cui stiamo assistendo è una pausa tattica nella campagna genocidaria di Israele che, nel migliore dei casi, potrebbe ridursi da un assalto ad alta intensità a una violenza e distruzione a bassa intensità. Il bilancio dopo l’annuncio del cessate il fuoco è eloquente: Israele ha continuato a bombardare Gaza, uccidendo e ferendo civili. Ciò rivela l’intento e la volontà di non smettere di trasformare Gaza in una zona di devastazione.
Il piano di Trump non è un percorso di pace e non limita Israele; formalizza gli obiettivi israeliani. La sua vaghezza intenzionale permette a Netanyahu di modellare ogni clausola a proprio vantaggio. Una preoccupazione diffusa e fondata è che la prima fase sia incentrata sulla liberazione dei prigionieri israeliani, dopo la quale una nuova rioccupazione di Gaza e un’ulteriore pulizia etnica resterebbero probabili.
Quali sono, secondo lei, le condizioni minime perché questa tregua possa trasformarsi in un percorso politico duraturo?
Le condizioni minime per trasformare questa fragile tregua in un processo politico duraturo non possono ridursi a semplici accordi temporanei o a garanzie di sicurezza. È necessario imporre vincoli strutturali a Israele, non solo per fermare la sua campagna genocidaria ma anche per smantellare la colonizzazione in corso delle terre palestinesi. Tali condizioni non possono nascere all’interno di Israele, né possono essere imposte soltanto dai palestinesi, data la profonda asimmetria di potere. Non si tratta di un conflitto tra due parti uguali, ma di uno scontro tra una potenza coloniale e un popolo colonizzato, l’ultima questione di colonialismo d’insediamento ancora attiva nel ventunesimo secolo.
L’analogia storica più vicina è quella del Sudafrica dell’apartheid. Lo smantellamento del regime non fu il risultato della sua volontà, ma di una pressione esterna continua e coordinata che rese il sistema insostenibile. La Palestina deve essere affrontata nello stesso modo se si vuole costruire un processo politico duraturo.

Contro le politiche di Israele è sorta una grande mobilitazione globale…
Il crescente isolamento internazionale di Israele rappresenta un passo significativo, ma rimane del tutto insufficiente. Occorre istituzionalizzare il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni in tutte le loro forme politiche, diplomatiche, economiche, culturali e legali, per rendere Israele responsabile e porre fine alla sua impunità. Gli Stati arabi devono interrompere la normalizzazione e schierarsi con la società civile globale, che ha già assunto un ruolo guida nel promuovere la responsabilità. Attori regionali, organizzazioni internazionali e movimenti di base hanno tutti un ruolo da svolgere nell’esercitare una pressione continua capace di costringere Israele ad abbandonare il suo progetto di apartheid e colonialismo d’insediamento.
Solo quando queste misure strutturali saranno in atto, creando veri costi per l’occupazione e la colonizzazione israeliana, una tregua potrà evolvere nei primi passi di un autentico processo politico in grado di affrontare i diritti e le aspirazioni del popolo palestinese.

In che modo Hamas esce da questo accordo sul piano politico interno palestinese? È una vittoria diplomatica o un segnale di debolezza?
Non si tratta né di una vittoria diplomatica né di un segno di debolezza. L’obiettivo prioritario è fermare il genocidio e l’uccisione di massa dei civili, anche se ciò richiede concessioni dolorose. Se Israele colpisse soltanto Hamas, inquadrare il ruolo di Hamas sarebbe più semplice. In realtà, centinaia di migliaia di persone sono state uccise o ferite e città storiche e densamente popolate sono state ridotte in macerie. Accettare un accordo ingiusto diventa quindi una necessità per arrestare la catastrofe.
Hamas ha subito colpi durissimi, ma resta un movimento influente di liberazione nazionale, capace di adattarsi sul piano organizzativo e militare e di reclutare nuovi combattenti. Parlare di “eradicazione” è un’illusione. Oltre settant’anni di tentativi di schiacciare o cooptare il movimento nazionale palestinese hanno prodotto, più volte, nuove forme, strategie e tattiche. È probabile che questo schema continui.
Ritiene che questo cessate il fuoco possa riaprire la questione della rappresentanza politica palestinese – ad esempio un dialogo tra Hamas, Fatah e altre fazioni?
L’unificazione interna dovrebbe essere sempre un obiettivo, perché rafforza il movimento nazionale palestinese di fronte all’aggressione israeliana. In termini realistici, però, un dialogo serio non si è verificato neppure durante il genocidio. Gli ultimi due anni hanno chiarito che la frattura principale non è semplicemente tra Hamas e Fatah o con l’Autorità Palestinese. È una spaccatura più ampia tra l’Autorità Palestinese da un lato e gran parte del movimento nazionale, della società civile e dell’opinione pubblica dall’altro. Da anni l’Autorità Palestinese segue un percorso in contraddizione con le aspirazioni dei palestinesi, un percorso che si è irrigidito durante il genocidio a Gaza e la repressione in Cisgiordania. Allo stesso tempo, i funzionari israeliani disprezzano regolarmente l’Autorità Palestinese nonostante il suo ruolo di sicurezza, le colonie continuano a espandersi e l’Autorità resta intrappolata nel tentativo di dimostrarsi un’amministrazione “affidabile” sotto occupazione.
Per quale ragione, secondo lei, tra gli ostaggi palestinesi che Israele libererà non vi è Marwan Barghouti? E quale potrebbe essere il suo ruolo in Palestina, se un giorno verrà liberato?
Il rifiuto di Israele di rilasciare Marwan Barghouti non riguarda un rischio immediato per la sicurezza. È una questione politica. Barghouti incarna una corrente nazionalista all’interno di Fatah che potrebbe seriamente mettere in discussione il dominio dell’Autorità Palestinese sul movimento. Tale dominio è stato centrale nella strategia israeliana di affidare a un’entità palestinese la gestione degli affari di sicurezza sotto occupazione. Liberare Barghouti significherebbe dare forza a una figura dotata di vasta legittimità, capace di riequilibrare i rapporti interni e ridurre la dipendenza della politica palestinese da meccanismi di coordinamento della sicurezza funzionali agli interessi israeliani.
Barghouti gode di grande rispetto trasversale tra le varie fazioni. Dal carcere ha costantemente sostenuto la necessità di rinnovare il movimento nazionale palestinese attraverso riforme interne, unità e legittimità democratica. Se fosse libero, con ogni probabilità cercherebbe di correggere la traiettoria di Fatah, rilanciare l’OLP come ombrello inclusivo e promuovere una strategia unitaria che colleghi mobilitazione di massa, rinnovamento istituzionale e azione internazionale. Questa prospettiva rappresenta un incubo per Israele e per le élite cooptate che beneficiano dell’attuale assetto, poiché minaccia uno status quo che frammenta la politica palestinese, soffoca ogni rinnovamento e lascia intatte le strutture centrali dell’occupazione.

Israele e gli USA hanno abbandonato l'idea di annettere Gaza e trasformarla in una "riviera di lusso"?
Non per forza. A mio avviso, Trump e i suoi collaboratori considerano le grandi crisi come opportunità d’affari. L’obiettivo di trasformare Gaza in un’enclave costiera privatizzata non è scomparso. È cambiato il modo di presentarlo e le tattiche per realizzarlo. La pressione a spingere i palestinesi a lasciare la Striscia continuerà attraverso uno spostamento “volontario”, prodotto dal rendere la vita invivibile. Chi resterà potrebbe essere riclassificato come manodopera a basso costo al servizio di investitori e appaltatori esterni.
Questo progetto incontra però ostacoli seri. I gazawi ne conoscono la logica e non intendono abbandonare la propria terra, anche in condizioni estreme. Il tessuto sociale, l’identità nazionale e l’attaccamento al luogo sono forze di resistenza decisive. Una ricostruzione legittima deve essere guidata dai palestinesi e centrata sulle loro priorità: alloggi dignitosi, infrastrutture pubbliche, proprietà comunitaria e protezione da accordi di concessione predatori.
In che misura il progetto sionista condiziona la capacità di Israele di accettare una pace reale, e non solo una tregua tattica?
Il progetto sionista va interpretato come un’impresa di colonialismo d’insediamento radicata nelle formazioni imperiali occidentali. Il suo obiettivo centrale è stato lo spossessamento e la marginalizzazione del popolo indigeno palestinese al fine di creare e consolidare uno Stato e una società a maggioranza ebraica. Finché il sionismo rimane il fondamento ideologico dello Stato israeliano, la prospettiva di una pace autentica e reciproca rimane in larga misura illusoria.
I due anni di genocidio a Gaza hanno rafforzato o indebolito tale progetto?
È stato indebolito in misura senza precedenti. Il massacro non è un segno di forza; riflette un crollo morale e una miopia strategica. La novità riguarda l’ampiezza con cui il sionismo è stato smascherato a livello globale, anche tra europei e statunitensi. Sebbene molte élite occidentali rimangano complici in vari modi, le società civili stanno cambiando, soprattutto tra le generazioni più giovani. Il risultato è un’ampia crisi di legittimità che aumenta i costi politici, culturali ed economici per mantenere l’apartheid e l’occupazione permanente.
L’erosione non è solo morale. Essa limita la diplomazia, restringe le coalizioni e complica investimenti e partenariati culturali. Il controllo da parte di organismi e tribunali internazionali per i diritti umani si è intensificato, e le campagne pubbliche per la responsabilità sono diventate più coordinate e transnazionali. Nulla di tutto ciò garantisce da solo una trasformazione. Tuttavia, nel lungo periodo, un progetto fondato sul dominio permanente diventa sempre più difficile da sostenere.
Israele sta cercando di sottrarsi a una crisi di legittimità e a un crescente discredito internazionale. Lo fa con l’aiuto di alleati di primo piano come gli Stati Uniti e alcuni governi europei e, purtroppo, con il sostegno di regimi arabi autoritari che mantengono la normalizzazione con Israele in pieno genocidio e si oppongono alla liberazione palestinese. A ciò si aggiunge la totale acquiescenza dell’Autorità Palestinese, che ha scambiato i diritti fondamentali dei palestinesi con la sopravvivenza e i privilegi della propria élite dirigente.
Che questa tendenza diventi decisiva dipenderà da tre fattori. Primo, una pressione globale continua, organizzata, e strategica. Secondo, un rinnovamento politico palestinese capace di trasformare la solidarietà in risultati concreti. Terzo, un contesto regionale che sostenga l’autodeterminazione palestinese, fondi la ricostruzione sui diritti e respinga ogni tentativo di presentare il dominio come pace.
A suo avviso, che cosa manca perché questo accordo si trasformi in un vero processo di pace?
Non esiste alcun “processo di pace” nelle condizioni di colonialismo d’insediamento, genocidio e apartheid. La pace non è un percorso retorico né una formula di pubbliche relazioni. La pace richiede lo smantellamento delle strutture che la negano, in particolare le istituzioni e le pratiche del colonialismo d’insediamento e dell’apartheid che organizzano lo spossessamento, l’ingegneria demografica, l’accerchiamento e la coercizione.
La pressione internazionale, quindi, non è facoltativa. È la condizione necessaria per qualsiasi orizzonte politico credibile. Tale pressione deve essere coordinata nei campi diplomatico, giuridico, economico, culturale e della società civile, con parametri chiari: porre fine all’assedio e al regime militare, fermare le colonie e le confische di terre, revocare le restrizioni alla libertà di movimento, liberare i prigionieri politici, ripristinare la parità di tutela giuridica e ricostituire istituzioni rappresentative attraverso elezioni inclusive ovunque possibile.
La pace, in questo senso, non riguarda solo i palestinesi o la regione. È una questione globale. Gli ultimi due anni, pur rappresentando un’intensificazione di schemi di lungo periodo, hanno mostrato come la politica israeliana generi instabilità più ampia. I tentativi di normalizzare la violenza di massa corrodono il diritto internazionale, indeboliscono i regimi dei diritti umani e abbassano la soglia per l’uso della forza altrove. Quando gli Stati potenti premiano l’impunità, ne incoraggiano l’imitazione. Una pace sostenibile richiede di invertire questa deriva.
Solo se queste condizioni strutturali saranno affrontate e rimosse potrà iniziare un vero processo politico. Senza tale trasformazione, il parlare di pace rimarrà un sostituto della pace stessa.