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Guerra Ucraina-Russia

“Negli ospedali si congela a causa dei droni russi, fuori temperature di -5°”: l’allarme di MSF dall’Ucraina

Nell’est dell’Ucraina la sanità opera sotto attacchi continui di droni, blackout e temperature sotto zero. Medici Senza Frontiere cura ed evacua pazienti mentre negli ospedali le condizioni diventano sempre più fragili.
Intervista a Enrico Vallaperta
Responsabile medico di Medici Senza Frontiere in Ucraina
A cura di Davide Falcioni
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Dieci ore di elettricità al giorno, temperature sotto zero e il costante ronzio dei droni sopra la testa. Nell’est dell’Ucraina la guerra è diventata una condizione permanente, una normalità fatta di allarmi, rifugi e interruzioni improvvise della vita quotidiana. In questo contesto si muove Medici Senza Frontiere, cercando di portare assistenza sanitaria in territori in cui il conflitto tra Mosca e Kiev sembra non conoscere tregue e anche i negoziati di pace in corso in queste settimane vengono osservati con poche speranze e molto disincanto.

Fanpage.it ha intervistato Enrico Vallaperta, responsabile medico di MSF in Ucraina per l’area orientale, che descrive una guerra sempre più tecnologica, ma non per questo meno devastante. Droni a controllo diretto, missili e bombardamenti sulle infrastrutture hanno trasformato anche gli ospedali in luoghi precari, dove nulla può essere dato per scontato, nemmeno l'acqua corrente o il riscaldamento nel rigido inverno ucraino. Come spiega Vallaperta, "ci sono i continui sbalzi di tensione che danneggiano le apparecchiature medicali: molti macchinari si rompono e non sono più utilizzabili. Ma non solo. Ogni volta che ci sono droni in zona bisogna fermarsi, andare nei rifugi, interrompere le attività. Oppure si continua sperando che l’attacco colpisca altrove".

Enrico Vallaperta
Enrico Vallaperta

In quale zona sta operando e che tipo di intervento state portando avanti in Ucraina con Medici Senza Frontiere?

Mi trovo nell’est dell’Ucraina. Mi muovo soprattutto tra Zaporizhzhia, Dnipro e Sloviansk, quindi nell’area del Donetsk e del Donbass. Le nostre attività mediche sono concentrate in questa zona e si articolano su tre livelli principali. Il primo è una rete di ambulanze che serve a ridurre il carico sugli ospedali più esposti: trasferiamo pazienti critici dalle strutture sulla linea del fronte verso aree più sicure, dove possono ricevere cure più adeguate. Il secondo è il supporto diretto a tre ospedali della zona di fronte, in particolare per i pronto soccorso e le sale operatorie. Il terzo riguarda le cliniche mobili, con cui raggiungiamo i villaggi e le aree più vicine al fronte per garantire cure di base alla popolazione che è rimasta.

 Quindi si trova praticamente nel cuore della guerra.

Non direi nel cuore, ma subito dopo. Un passo indietro, il più vicino possibile al fronte compatibilmente con la sicurezza. Siamo nella zona immediatamente retrostante la linea dei combattimenti.

Che situazione state registrando in questo periodo?

La situazione è relativamente costante, nel senso che non ci sono grandi cambiamenti improvvisi, ma gli attacchi sono continui. Da agosto in poi c’è stata un’intensificazione: prima la guerra era più stagnante, ora è diventata più attiva. In particolare c’è stato un aumento massiccio dell’uso di droni e missili provenienti dalla Russia. Il vero cambiamento è stato proprio l’introduzione su larga scala dei droni. Le aree colpite cambiano di settimana in settimana: per quindici giorni magari è più calda una zona, poi l’attenzione si sposta. Negli ultimi dieci giorni, ad esempio, gli attacchi si sono concentrati più a sud, nell'area di Odessa, mentre fino a poche settimane fa era l’area di Sloviansk e dei villaggi circostanti a essere sotto maggiore pressione.

 Chi conduce questi attacchi?

Gli attacchi arrivano dalle zone controllate dall’esercito russo. La linea corre subito a est di Zaporizhzhia, attraversa il Donetsk e il Luhansk e arriva fino a Kharkiv: è questa la fascia che ci riguarda direttamente. Da lì vengono lanciati principalmente due tipi di droni. Ci sono quelli a visione diretta, controllati in tempo reale, che possono colpire fino a circa 15 chilometri dalla posizione delle truppe: sono i più pericolosi. Poi ci sono droni che partono già programmati con un obiettivo preciso.

Quali sono gli obiettivi principali?

In genere si concentrano sulle infrastrutture elettriche e sulle grandi fabbriche. Questo però non significa che edifici civili o ospedali siano risparmiati. I droni non a controllo diretto non sono sempre precisi e spesso finiscono per colpire case, palazzi, strutture civili.

Quali sono le conseguenze più gravi di questi attacchi?

Il problema principale è la distruzione delle infrastrutture energetiche. L’elettricità è razionata: in questo momento, mediamente, c’è corrente per circa dieci ore al giorno. Senza elettricità spesso manca anche l’acqua corrente e, soprattutto, il riscaldamento.

Con temperature rigidissime.

Sì. Domani, ad esempio, la temperatura massima prevista è meno cinque gradi. Paradossalmente è considerato un inverno “mite” per gli standard di questa zona, ma resta comunque durissimo.

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Come si ripercuote tutto questo sugli ospedali e sulla situazione sanitaria?

Le conseguenze sono pesanti. Da un lato ci sono ospedali in cui i pazienti sono al freddo e senza acqua corrente. Dall’altro ci sono i continui sbalzi di tensione che danneggiano le apparecchiature medicali: molti macchinari si rompono e non sono più utilizzabili. Questo è uno dei principali problemi dal punto di vista dell’intervento medico.

 E poi ci sono gli attacchi continui.

Esatto. Ogni volta che ci sono droni in zona bisogna fermarsi, andare nei rifugi, interrompere le attività. Oppure si continua sperando che l’attacco colpisca altrove. In una giornata “normale” in una singola area si possono registrare dieci, quindici passaggi di droni. Questo significa interrompere il lavoro continuamente.

Sta accadendo qualcosa di simile a quanto vediamo a Gaza, con attacchi diretti agli ospedali e al personale sanitario?

Le modalità sono diverse. Qui non si parla di attacchi sistematicamente diretti alle persone come a Gaza, dove i droni sono ovunque per via della distanza ravvicinata. In Ucraina i droni a controllo diretto arrivano fino a circa 15 chilometri: quella è la cosiddetta “zona rossa”, dove noi non siamo presenti. Detto questo, gli ospedali vengono colpiti, volontariamente o meno: non è possibile sapere se l’obiettivo fosse davvero la struttura sanitaria, ma il risultato è che gli ospedali vengono danneggiati.

È successo anche dove eravate presenti voi?

Sì. In passato ospedali in cui operavamo sono stati colpiti da droni o missili e abbiamo dovuto abbandonarli. Non è successo negli ultimissimi tempi, ma è accaduto.

Questa distanza di “sicurezza” dei 15 chilometri si sposta con l’avanzata delle truppe russe?

Esattamente. I 15 chilometri si calcolano dalla posizione dell’ultimo soldato russo, quello che materialmente controlla il drone. Quando quella linea avanza, anche la zona insicura avanza e noi dobbiamo arretrare o spostarci.

Avete già dovuto farlo?

Sì. A ottobre abbiamo dovuto abbandonare l’ospedale di Pokrovsk, dove eravamo presenti da un anno, proprio perché è rientrato in questo raggio. E lo stesso vale per le cliniche mobili: ci sono villaggi che una settimana riusciamo a raggiungere e quella dopo no. La popolazione però spesso resta. Alcuni dicono: “Questa è casa mia, da qui non me ne vado”. Restano sapendo di essere a rischio, ma senza alcun servizio.

Sta seguendo l’evoluzione dei negoziati di pace? Che idea si è fatto?

Li seguo, come tutti. Ma più che la mia opinione conta quella delle persone che vivono qui, che hanno molta più esperienza diretta. In generale se ne parla poco. Dicono che è da quattro anni che si sente parlare di negoziati, da quattro anni che sembra sempre che l’accordo sia dietro l’angolo. È un tema che li tocca relativamente, perché la fiducia nell’efficacia di questi accordi è molto bassa.

E la popolazione cosa pensa? Qualsiasi pace è meglio di questa guerra o una pace “ingiusta” sarebbe comunque inaccettabile?

È una domanda a cui è impossibile dare una risposta unica. Le opinioni sono completamente diverse, spesso opposte. C’è chi direbbe meglio una pace subito, chi invece rifiuta qualsiasi compromesso. Non saprei dire cosa pensi la maggioranza. L’unica cosa certa è che tutti vorrebbero vivere in pace.

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