In Sudan la guerra dimenticata, Save The Children: “Strage di bambini e civili nel silenzio del mondo”

Nel silenzio assordante della comunità internazionale in Sudan si sta consumando una delle guerre più feroci e devastanti del nostro tempo. Dal 2023, lo scontro tra l’esercito regolare sudanese (SAF) e le Forze di Supporto Rapido (RSF) ha ridotto il Paese in macerie, provocando una catastrofe umanitaria di proporzioni enormi: oltre 11 milioni di persone sono state costrette a fuggire dalle proprie case, e circa 30 milioni – metà della popolazione – dipendono oggi dagli aiuti umanitari per sopravvivere. Tra loro, 15 milioni sono bambini, intrappolati in un conflitto che non risparmia nessuno e che li espone quotidianamente alla fame, alla violenza e alla perdita.
Nelle ultime settimane, a partire dal 26 ottobre scorso, la città di El Fasher, nel Darfur settentrionale, è diventata l’epicentro dell’orrore: centinaia di migliaia di civili assediati, privati di cibo e acqua, vittime di massacri su base etnica e di attacchi indiscriminati che colpiscono donne e minori. In questo quadro Save The Children, organizzazione umanitaria che da anni presente in Sudan, denuncia una crisi senza precedenti, aggravata dall’impossibilità di raggiungere le aree più colpite. Francesco Lanino, vicedirettore dell'Ong nel Paese africano, in un'intervista a Fanpage.it sottolinea come il dramma sudanese rischi di aggravarsi ulteriormente, oscurato da altri conflitti, trascurato dai media, ignorato da una comunità internazionale che continua a reagire con lentezza.

Il 26 ottobre le Forze di supporto rapido (RSF) hanno annunciato la conquista del quartier generale dell’esercito governativo a El Fasher. Qual è ora la situazione nel Paese?
La crisi in Sudan, da un punto di vista umanitario, rimane una delle più gravi al mondo. Oggi parliamo di circa 11 milioni di persone rifugiate o sfollate all’interno del Paese dall’inizio della guerra, nell'aprile 2023, e di altre 30 milioni in condizioni di insicurezza alimentare, che necessitano urgentemente di aiuti umanitari. Tra loro ci sono circa 15 milioni di bambini. La situazione per i più piccoli è drammatica: molti hanno vissuto direttamente la guerra, la violenza e la perdita dei familiari, in un conflitto che continua ancora oggi in diverse aree del Sudan.
Dove si stanno concentrando in questo momento i combattimenti principali?
Dopo la ripresa di alcuni territori da parte delle Forze Armate Sudanesi (SAF), gli scontri si sono spostati soprattutto nelle regioni del Darfur e del Kordofan. Oggi le aree più colpite sono proprio queste. La città di El Fasher, nel Nord Darfur, era l’ultima non ancora caduta sotto il controllo delle RSF, le Forze di Supporto Rapido, ed è stata assediata per oltre 18 mesi, durante i quali è stato impossibile accedervi o far arrivare aiuti umanitari. La popolazione era già in una situazione di carestia estrema, con bambini e adulti morti di fame e malnutrizione.
Cosa è successo a El Fasher negli ultimi giorni?
Nelle scorse settimane le RSF sono riuscite a conquistare la città, che contava ancora circa 300.000 abitanti. Durante la conquista si è verificato un massacro indiscriminato della popolazione civile, comprese donne e bambini. Si è trattato di violenze in gran parte di matrice etnica e tribale, mirate a colpire comunità percepite come “altre” rispetto a quelle di cui fanno parte le RSF.
Quali sono state le conseguenze di questa nuova offensiva?
Negli ultimi giorni decine di migliaia di persone sono fuggite da El Fasher. Circa 40.000 sono arrivate a Tawila, a una sessantina di chilometri di distanza; 50.000 si stanno muovendo verso il Nord Darfur e Khartoum; 15.000 dal Nilo Bianco e altre 10.000 verso il Kordofan. Save the Children è presente in tutte queste aree, ma soprattutto a Tawila, dove abbiamo avviato programmi di assistenza per chi è riuscito a scappare durante i giorni dell’attacco. Tuttavia, stimiamo che tra 200.000 e 250.000 persone siano ancora intrappolate dentro El Fasher, senza possibilità di uscire, e purtroppo non abbiamo notizie aggiornate sulla loro condizione. Si calcola che tra loro ci siano circa 130.000 bambini.

Nei giorni scorsi sono circolate notizie di veri e propri massacri di civili e, in particolare, di minori…
Sì, purtroppo possiamo confermare che ci sono stati omicidi di minori e donne. Durante l’attacco a El Fasher sono stati uccisi anche operatori umanitari: cinque appartenenti alla Croce Rossa Sudanese e un membro di un’altra ONG. Non possiamo escludere che ci siano state altre vittime, ma al momento non abbiamo accesso diretto alla città e questo ci impedisce di verificare i fatti in modo indipendente.
La popolazione ha accesso agli aiuti umanitari?
È una situazione estremamente complessa. Ci sono enormi difficoltà logistiche e di sicurezza che impediscono di portare aiuti laddove servono di più. El Fasher, per esempio, è completamente isolata: non esistono corridoi umanitari e non possiamo raggiungere la popolazione rimasta all’interno. Attorno alla città abbiamo allestito centri di accoglienza, insieme ad altre organizzazioni, per assistere chi riesce a fuggire. A Tawila sono arrivati 40.000 nuovi sfollati in un villaggio che già ospitava circa mezzo milione di persone. La situazione, dunque, è drammatica.

Anche quella nei campi di accoglienza?
Sì, difficilissima. Tawila era già sovraccarica: l’anno scorso, tra marzo e aprile, c’è stato un attacco al campo di Zamzam, che ospitava mezzo milione di persone, e molti di loro si erano già spostati lì. Abbiamo quindi ampliato il nostro programma di emergenza per accogliere i nuovi arrivati: ogni giorno arrivano centinaia di persone, a cui offriamo assistenza medica, cibo, acqua e rifugi temporanei. Ma le loro testimonianze sono terribili.
Che cosa raccontano i sopravvissuti?
Raccontano di una fuga disperata lungo la strada tra El Fasher e Tawila, circa 60-70 chilometri di deserto. È un percorso che molti chiamano ormai "la strada della morte", perché è infestato da gruppi armati che attaccano i civili senza distinzione e senza pietà. Molte donne vengono violentate, gli uomini picchiati o uccisi, e quasi tutti vengono derubati. Abbiamo raccolto decine di testimonianze di persone che hanno perso familiari – mariti, figli, genitori – lungo la via. Molti sono arrivati da noi completamente esausti, senza cibo né acqua. E purtroppo non sappiamo quante persone non siano riuscite nemmeno a completare la fuga.

Nonostante i fatti delle ultime settimane la guerra in Sudan sembra ricevere pochissima attenzione mediatica. Pensa che questo elemento abbia favorito il ripetersi di crimini di guerra e atrocità?
Assolutamente sì. In quasi tre anni di conflitto, la tragedia del Sudan non ha avuto la risonanza mediatica che meriterebbe. È oggi la più grande crisi umanitaria del mondo, ma purtroppo non riceve la stessa copertura di altri conflitti come Ucraina o Gaza. Non si tratta di una competizione, ovviamente, ma parlarne è fondamentale: significa creare consapevolezza, mobilitare l’opinione pubblica e spingere i governi ad agire. Chi commette crimini contro l’umanità in Sudan deve essere ritenuto responsabile, deve essere indagato e fermato. Senza pressione internazionale e senza attenzione mediatica, queste atrocità continueranno nell’impunità.
Migliaia di profughi sudanesi cercano ogni anno di arrivare anche in Italia. C’è un legame diretto tra il conflitto e i flussi migratori verso l’Europa?
Sì, e molto stretto. Spesso si pensa che le guerre africane siano lontane, ma non è così. Il Sudan confina con la Libia, e da lì parte la maggior parte delle rotte migratorie verso l’Europa. Se guardiamo alle statistiche dei recenti sbarchi in Italia, la maggioranza delle persone provenienti dalla Libia è sudanese.
Parliamo di un Paese dove 11 milioni di persone sono già rifugiate o sfollate e 30 milioni vivono nell’incertezza di un pasto al giorno. È naturale che molti cerchino una via di fuga, un luogo sicuro dove sopravvivere. In assenza di alternative, l’Europa diventa la speranza, l’unico approdo possibile.

Ieri il ministro Tajani ha annunciato l’iniziativa "Italy for Sudan", con un contributo di 125 milioni di euro e l’invio di aiuti umanitari. Cosa ne pensa?
Ogni iniziativa è benvenuta, e questa del governo italiano è particolarmente importante. Parliamo di risorse preziose. La cosa fondamentale, però, è che gli aiuti arrivino subito, nel minor tempo possibile. Ogni giorno perso significa vite che non si riescono a salvare, soprattutto tra i bambini.
Noi, come Save the Children e insieme a molte altre organizzazioni internazionali, siamo già sul terreno: operiamo in Darfur, in Kordofan, in tutte le aree di conflitto. Abbiamo la capacità di far arrivare gli aiuti dove servono. Per questo accogliamo positivamente qualsiasi sforzo della comunità internazionale per aumentare l’assistenza umanitaria in Sudan.
Oltre agli aiuti, cosa serve per uscire da questa crisi?
Serve un impegno politico forte. Il conflitto in Sudan è, prima di tutto, una guerra politica per il potere, e non può essere risolta solo con gli aiuti umanitari. È urgente un cessate il fuoco immediato e la creazione di corridoi umanitari sicuri per permettere l’arrivo degli aiuti nelle città assediate, come El Fasher. Ma serve anche una strategia internazionale che favorisca una transizione verso la pace, altrimenti la spirale di violenza continuerà a devastare il Paese. Il Sudan non può essere dimenticato. Non possiamo permettere che milioni di persone, soprattutto bambini, muoiano di fame e di guerra nel silenzio generale.