Il vero obiettivo dell’occupazione di Gaza: “Netanyahu vuole cancellare ogni ipotesi di Stato palestinese”

"La decisione è presa: occuperemo totalmente Gaza". Con queste parole fonti interne al governo israeliano hanno anticipato l’intenzione del primo ministro Benjamin Netanyahu di procedere con un’occupazione militare completa della Striscia di Gaza. La dichiarazione – accompagnata da un messaggio perentorio indirizzato al Capo di Stato Maggiore delle Forze di Difesa Israeliane (IDF), invitato a dimettersi in caso di dissenso – segna un punto di non ritorno nella guerra in corso e alimenta nuove tensioni all’interno dello stesso apparato israeliano.
L’ennesima escalation arriva in un momento delicato, segnato dalla recente diffusione di nuovi video da parte di Hamas che mostrano due degli ostaggi israeliani in condizioni drammatiche, visibilmente denutriti e provati. I filmati – uno girato in un tunnel, l’altro in una cella – sono accompagnati da appelli rivolti direttamente a Netanyahu affinché consenta l’ingresso di beni di prima necessità nella Striscia. Secondo il gruppo palestinese, anche gli ostaggi stanno morendo di fame come il resto della popolazione civile. La decisione del premier israeliano di estendere l’operazione anche nelle zone dove sono presumibilmente tenuti gli ostaggi rompe dunque un altro tabù: fino ad ora l’esercito israeliano aveva evitato di entrare in quelle aree per non mettere a rischio la vita dei prigionieri. Ora questa precauzione sembra essere venuta meno.
Ma quale strategia si cela davvero dietro la scelta di occupare totalmente Gaza? Si tratta di una mossa militare per liberare gli ostaggi o di un piano politico per ridefinire l’assetto territoriale del conflitto israelo-palestinese? E come si intreccia tutto questo con quanto accade in Cisgiordania e con il crescente isolamento diplomatico di Israele?
Fanpage.it ha interpellato Giuseppe Dentice, analista esperto di Medio Oriente presso l’Osservatorio sul Mediterraneo (Osmed) dell’Istituto di Studi Politici San Pio V e co-autore dell'Atlante Geopolitico del Mediterraneo 2025 (a cura di Francesco Anghelone e Andrea Ungari).
Il primo ministro israeliano Netanyahu ha annunciato ieri un piano per l’occupazione totale della Striscia di Gaza. Che implicazioni comporta?
Le implicazioni sono enormi, sia sul piano politico che strategico, anche se di fatto, non siamo di fronte a una novità assoluta: l’operazione militare in corso da mesi ha già mostrato le sue intenzioni. Ma con questa dichiarazione esplicita di occupazione totale della Striscia, viene meno qualsiasi mascheramento retorico. Non si parla più di "zone umanitarie", "corridoi sicuri" o "città cuscinetto", ma di un ritorno al pieno controllo israeliano sull’intera Gaza. Questo piano apre la porta anche alla reintroduzione delle colonie evacuate nel 2005 con il disengagement deciso da Sharon.
Un ritorno indietro di vent’anni, quindi.
Sì, e non solo simbolico. All’epoca, Israele lasciò Gaza con la motivazione ufficiale di tutelare la sicurezza dei propri cittadini, esposti agli attacchi continui da parte dei gruppi della resistenza palestinese. Oggi, si rientra con l’obiettivo dichiarato di eliminare Hamas una volta per tutte e – fatto più grave – di reinsediare i coloni israeliani. In questo senso, si rovescia completamente la logica del ritiro del 2005. Ma è anche un’operazione che va oltre Gaza: serve a chiudere definitivamente il dossier palestinese anche in Cisgiordania.
In che modo?
Occupando Gaza e mantenendo un controllo sempre più esteso sulla Cisgiordania, Israele mira a cancellare ogni ipotesi realistica di uno Stato palestinese. Si smantella la possibilità di un'entità territoriale continua, rendendo impossibile qualsiasi progetto politico palestinese.
Questo può essere anche letto come una risposta ai recenti annunci di riconoscimento dello Stato palestinese da parte di alcuni Paesi europei, a partire da Francia e Regno Unito?
Assolutamente sì. È anche un tentativo di vanificare sul piano pratico le decisioni di quei Paesi che hanno riconosciuto la Palestina come Stato o che intendono farlo in futuro. Netanyahu, con questa mossa, vuole svuotare di significato politico quei riconoscimenti, riducendoli a gesti puramente simbolici. Inoltre, si allinea e cerca copertura nell’appoggio statunitense, anche in un contesto ambiguo come quello attuale, dove Trump, ad esempio, ha dichiarato tutto e il contrario di tutto: prima parlando della fame a Gaza, poi appoggiandone l’occupazione.
E il governo italiano? Come giudica la sua posizione in questo quadro internazionale?
La posizione italiana è contraddittoria. Si presenta come "neutrale" o "prudente", ma nei fatti è ambigua e decisamente filo-israeliana. Non ha ancora riconosciuto la Palestina come Stato, al contrario di altri Paesi europei. Tuttavia, ha partecipato ad alcune iniziative internazionali, come quella franco-saudita all’ONU per rilanciare un processo di pace. Insomma, il governo tiene un piede in due scarpe. Ma questa ambiguità rischia di isolarci in Europa.

La recente lettera firmata da oltre 70 ambasciatori italiani, che chiede il riconoscimento della Palestina, sembra segnalare proprio una frizione interna.
Esatto. È un segnale molto forte. Gli ambasciatori denunciano il rischio che l’Italia venga marginalizzata in Europa su una questione storicamente centrale per la nostra politica estera. L’Italia è sempre stata tra i promotori del dialogo in Medio Oriente, ma oggi si trova paralizzata tra la fedeltà all’alleato israeliano e la necessità di allinearsi a un’Europa che si muove – almeno in parte – verso il riconoscimento dei diritti palestinesi. È una posizione politicamente scomoda, e il governo fatica a tenerla.
Anche in Israele, però, ci sono segni di frattura. È notizia delle ultime ore il duro scontro tra il governo e i vertici dell'esercito, a partire dal Capo di Stato Maggiore Eyal Zamir.
È un elemento importantissimo. Eyal Zamir, come altri vertici della sicurezza e dell’intelligence israeliana, esprime il disagio crescente degli apparati rispetto alle decisioni politiche del governo. Zamir ha detto chiaramente che un’occupazione di Gaza mette a rischio sia i soldati che gli ostaggi israeliani ancora detenuti da Hamas. E questo apre un conflitto istituzionale con Netanyahu, che continua a perseguire una linea ideologica, ignorando le considerazioni strategiche e militari. Il tentativo di silenziare il procuratore che indagava su di lui, poi bloccato dalla Corte Suprema, è un altro segnale di un sistema democratico in grave crisi.
Insomma, pezzi di istituzioni centrali israeliane stanno mettendo in una sorta di costante stato d'accusa il governo, perché ritengono che si stia traghettando il Paese verso un processo molto lontano da quella che si ritiene ancora oggi – con tutti i suoi limiti – l'unica democrazia del Medio Oriente. Questo scontro istituzionale va tenuto sotto osservazione e monitorato molto attentamente perché probabilmente è l'unico in grado di definire spostamenti all'interno di tante dinamiche interne a Israele e all'intero Medio Oriente.
A proposito di ostaggi, sembra che Netanyahu abbia deciso di non considerarli più una priorità. È davvero così?
Sì. È un dato di fatto ormai. All'inizio del conflitto, la liberazione degli ostaggi era il principale obiettivo dichiarato. Oggi è evidente che l’occupazione di Gaza ha la precedenza su tutto, anche sulla vita degli ostaggi israeliani. Le operazioni militari non hanno prodotto risultati significativi: la maggior parte degli ostaggi liberati lo sono stati tramite negoziati, non con la forza. E lo stesso governo ha ammesso che il loro destino degli ostaggi non è più una condizione vincolante. Il che significa, in pratica, che sono sacrificabili per raggiungere obiettivi politici più grandi.

Alla luce di tutto ciò, qual è il progetto politico di Netanyahu?
È un progetto di occupazione territoriale totale. Gaza serve a rafforzare la strategia in Cisgiordania, e viceversa. L'obiettivo è chiaro: estendere le colonie, aumentare il controllo su Gerusalemme Est, cambiare lo status giuridico della Spianata delle Moschee, impedire la continuità territoriale tra i villaggi palestinesi. In questo modo, i palestinesi non avranno mai le condizioni minime per costituire uno Stato. Parliamo di una geografia frammentata, a "macchie di leopardo", che rende impossibile qualsiasi sovranità e organizzazione statale. È un progetto dichiaratamente sionista e coloniale, finalizzato a consolidare l’occupazione e a smantellare ogni prospettiva palestinese.
Anche il lessico ufficiale israeliano – "Giudea e Samaria" – è parte di questo progetto?
Sì. L’uso sistematico di termini biblici per indicare la Cisgiordania serve a rafforzare la legittimità ideologica dell’occupazione. È un linguaggio che rientra nella narrazione sionista più estrema, e che mira a costruire un diritto storico-religioso alla terra che scavalchi il diritto internazionale. Ministro Katz, la ministra della Giustizia, lo stesso Netanyahu parlano apertamente di una sovranità israeliana su tutta l’area, negando di fatto il diritto dei palestinesi all’autodeterminazione.