USA, giustiziato un detenuto malato: aveva chiesto di disattivare il pacemaker per non soffrire

Una storia incredibile, un vero e proprio corto circuito logico ed etico, arriva dagli Stati Uniti. Lo Stato del Tennessee ha infatti portato a termine l’esecuzione di Byron Black, 69 anni, nonostante l’assurdo paradosso emerso nei giorni precedenti: la preoccupazione che il defibrillatore cardiaco impiantato potesse "riportarlo in vita" durante l’iniezione letale, causandogli ulteriori sofferenze. Una contraddizione che ha riacceso il dibattito sul ricorso alla pena di morte negli USA e sul concetto stesso di "umanità" applicato all’atto estremo dell’esecuzione.
Black, condannato per un triplice omicidio avvenuto nel 1989, è stato dichiarato morto alle 10:43 ora locale nel carcere di massima sicurezza di Riverbend, a Nashville. La sua condizione fisica era grave: su sedia a rotelle, affetto da demenza, danni cerebrali, insufficienza renale e cardiaca. Eppure, nelle ultime settimane, l’attenzione della giustizia si era concentrata non sulla sua salute mentale o sulla sua età avanzata, ma sul dispositivo medico impiantato nel suo petto: un cardioverter-defibrillatore.
I legali del detenuto avevano chiesto che il dispositivo fosse disattivato sostenendo che, se attivato durante l’iniezione letale, avrebbe potuto tentare di rianimarlo, provocandogli un’agonia inutile. Una corte di primo grado aveva dato loro ragione, ma la Corte Suprema del Tennessee è intervenuta annullando la decisione, affermando che il giudice non aveva l’autorità per imporre la disattivazione.
L’assurdità della situazione è emersa in tutta la sua crudezza il giorno dell’esecuzione, quando alcuni dei sette testimoni presenti hanno riferito che Black "sembrava gemere di dolore" e, in un momento, avrebbe detto chiaramente: "It’s hurting so bad" ("Fa così male"). Nonostante queste affermazioni, non è chiaro se il dispositivo si sia effettivamente attivato. I legali intendono analizzarne i dati nell’ambito dell’autopsia. Ma l’interrogativo resta: può uno Stato preoccuparsi che un condannato possa soffrire… mentre lo si uccide?
"Oggi, lo stato del Tennessee ha ucciso un uomo gentile, fragile, con disabilità intellettiva, in violazione delle leggi del nostro Paese, semplicemente perché poteva farlo", ha dichiarato l’avvocata Kelley Henry, puntando il dito contro quella che ha definito una crudeltà istituzionalizzata.
Black, che ha sempre proclamato la propria innocenza, è stato condannato per l’omicidio della sua compagna Angela Clay, 29 anni, e delle sue due figlie, Latoya e Lakeisha, di 9 e 6 anni. Tutti i suoi ricorsi sono stati respinti. Dopo l’esecuzione, la sorella della vittima, Linette Bell, ha dichiarato: "La sua famiglia ora sta vivendo la stessa cosa che abbiamo vissuto noi 37 anni fa. Non posso dire che mi dispiace, perché noi non abbiamo mai ricevuto delle scuse. Non si è mai scusato e non ha mai ammesso ciò che ha fatto, nemmeno sul letto di morte. Se l’è portato nella tomba. E sa di averlo fatto".
Black è il 28° detenuto ad essere giustiziato negli Stati Uniti nel 2025. Almeno altre otto esecuzioni sono già programmate. La pena di morte è ancora legale in 27 stati americani, oltre che a livello federale.