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Cosa vuol dire che la Cina “si sta preparando alla guerra”

“Prepararsi alla guerra” riportano i titoli dei principali quotidiani globali che parlano del nuovo discorso di Xi Jinping al proprio esercito. In che termini il Presidente cinese ha parlato di guerra? E’ la prima volta che succede? Come si stanno muovendo Cina e Usa? Siamo di fronte ad uno scontro armato imminente?
A cura di Gian Luca Atzori
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Dopo essere stato rieletto per la terza volta divenendo il Presidente più longevo da Mao, martedì Xi Jinping ha compiuto un’ispezione al centro di comando della Commissione militare centrale (Cmc) al fine di “prepararsi al combattimento” e implementare le nuove linee guida del ventesimo Congresso nel quale si è parlato di una “pericolosa tempesta” in arrivo.

“Concentrare le energie sul combattimento e lavorare duro per migliorare la capacità di vincere” ha affermato Xi, perché “in una situazione instabile e incerta” l’esercito dovrebbe “difendere risolutamente la sovranità nazionale e la sicurezza nazionale”. Significa forse questo che Pechino si sta preparando ad un’imminente guerra nel Pacifico, con le sue devastanti conseguenze globali?

Esperti di intimidazioni

Per rispondere a questa domanda è sicuramente necessario fare un passo indietro, sia nei toni e sia nei tempi. Prima di tutto, nel mentre che la gran parte dei quotidiani occidentali riporta nei propri titoli la parola “guerra” (zhanzheng, 战争), quella utilizzata più di frequente da Xi è stata “combattimento” (zhandou, 战斗), che può avere il valore di “battaglia”, ma anche di “scontro”, un termine quest’ultimo ampiamente utilizzato da anni nel narrare le relazioni sino-americane da entrambi gli emisferi. 

Inoltre, la prima volta che Xi ha ordinato al suo esercito di prepararsi al conflitto è stato nel 2013, all’indomani della sua prima elezione. Secondo i documenti ufficiali, invece, la prima volta che l’attuale Presidente cinese ha ispezionato il centro di comando della Cmc è stato nell’aprile del 2016. In quella e nelle successive visite la sua retorica ha sempre messo al centro la “forza militare”, la “preparazione al combattimento” e la “sicurezza nazionale”. È accaduto ogni anno, con sempre maggiore intensità è vero, ma non si tratta comunque di una novità.

Vergini di guerra

Infatti, durante il suo discorso di apertura del Congresso, Xi ha utilizzato la parola “sicurezza” per ben 50 volte e la parola “lotta” (douzheng, 斗争) per 17 volte, la quale legandosi a un continuo ricorso alla dialettica dell’umiliazione storica compiuta dai soprusi Occidentali, ricorda spesso l’enfasi maoista sulla “lotta di classe” per combattere contro l’imperialismo e l’influenza straniera. Una crociata, quella contro gli stranieri, che ha sempre contraddistinto l’operare di Xi.

Va tuttavia tenuto a mente che, dalla Guerra di Corea che ha seguito la Seconda guerra mondiale, la Cina non ha mai effettivamente invaso altri paesi o guidato una propria guerra, né direttamente né per procura. Come affermato dall’esperto militare Li Jie sulle pagine del Global Times (versione inglese del quotidiano di Partito, il Renmin Ribao): "lavorare per la prontezza al combattimento non significa essere bellicosi, tutti i paesi si preparano nel vicinato e la Cina non fa eccezione, soprattutto in una situazione odierna sempre più tesa".

Per Song Zhongping, altro esperto militare cinese, "l'unico modo per garantire che non ci sia una guerra è avere la forza per vincere una guerra", frase che poggia sulla vecchia filosofia di Sun Zi e de “L’arte della guerra”, per il quale arrivare al combattimento diretto è già di per sé una sconfitta in quanto non si è stati in grado di convincere il proprio avversario della propria indiscutibile superiorità con altri mezzi.

Hard power di una nuova era

Se dunque nel 2013 Xi Jinping portava la politica estera cinese da un “basso profilo” ad un approccio – nella parole dello studioso Yan Xuetong – di “conquista degli obiettivi”, ora possiamo dire che la nuova era di Xi non sarà solo “soft power”. 

Secondo Willy Lam, studioso della Jamestown Foundation di Washington, il Presidente cinese “sta mandando un messaggio agli Stati Uniti e a Taiwan. Nonostante la loro forza militare non eguagli ancora quella americana, il processo decisionale di Xi non è sempre basato su scelte razionali”.

Al netto infatti che le esercitazioni, le invasioni aeree e gli allarmi su Taiwan siano decennali, le tensioni intorno all’isola hanno raggiunto i livelli di una nuova crisi e dell’insediamento di una “nuova normalità” che potrebbe generare esiti devastanti e imprevedibili.

Il vaso del Pacifico

Per il commando Indo-Pacific americano (INDOPACOM), nel 2025 la Cina dovrebbe superare le forze militari Usa nella regione pacifica. Per l’intelligence di Washington, la Cina -che considera Formosa come una questione di politica interna- sta lavorando attivamente per riprendersi l’isola, ma ha anche dilazionato questa eventualità al 2030, ritenendo che gli stessi cinesi preferirebbero non utilizzare la violenza militare, come fu per Deng con Hong Kong. Inoltre non si può ignorare come l’Europa rappresenti il principale partner commerciale per la Cina e come la situazione di crescita economica attuale non sia promettente. Serve soprattutto riflettere nel tentativo di scongiurare la guerra fredda tra blocchi divergenti e soccorrere quanto rimasto del prezioso multilateralismo.

Allo stesso tempo però, esistono presupposti e scenari differenti. Il primo è proprio quello legato al multipolarismo crescente nell’area. Come scritto la settimana scorsa su queste pagine, non bisogna solo considerare Pechino e Taipei, ma anche le esercitazioni Usa tra Tokyo e Seoul e le risposte di Pyongyang. Il vaso Pacifico continua a colmarsi pericolosamente.

Inoltre, da una parte ci sono le Isole Kinmen e Matsu, molto più vicine geograficamente alla Repubblica Popolare che alla Repubblica di Cina, le quali potrebbero essere un primo step per la “riunificazione”. Dall’altra, c’è la delicata situazione di Xi Jinping, rieletto con più potere che mai ma con due fallimenti sulle spalle in politica estera e domestica vantati come grandi successi: dall’amicizia con Putin alla politica Zero Covid. Se a questo si somma la crisi economica e l’aumento delle tensioni globali, secondo diversi analisti il Pcc tenderebbe a ritrovare legittimazione in temi molto cari all’opinione pubblica, come la riunificazione con Taiwan e la disfatta dell’occidente dopo secoli di umiliazione e imperialismo.

La diplomazia dei lupi

Nel 2013, quando il Presidente prese il potere, un sondaggio compiuto in 10 città cinesi mostrò che solo il 6% dei cinesi era favorevole ad una riunificazione armata. Appena tre anni di “Nuovo Sogno Cinese” dopo, questa percentuale superava l’85%. Secondo Qi Dongtao, dell’ East Asian Institute della National University of Singapore, oggi più del 50% dei cinesi supporta la riunificazione armata. Chi la pensa così è solitamente un maschio urbano con un buon livello di istruzione e membro del Partito. In questi dati si radica la base sociale della “wolf warrior diplomacy” di Pechino.

Una diplomazia da lupi molto presente anche online. Qualche mese fa un post su weibo diffuso dall’account dell’Esercito nazionale di liberazione ha recitato solo: “Prepararsi alla guerra”, ricevendo oltre 300 mila like in dodici ore, con 19 mila commenti ultranazionalisti come "dobbiamo tenere a mente la responsabilità fondamentale di prepararci alla guerra e di ingaggiare il viaggio di un forte esercito".

Dal “se” al “quando”

Nonostante le più grandi perplessità, secondo il William & Mary's Global Research Institute, l’invasione non sarà imminente. L’analisi, tratta dal progetto Teaching, Research & International Policy (TRIP), aggrega le opinioni di oltre 4500 studiosi di relazioni internazionali statunitensi. Questa stessa folla di ricercatori ha previsto l’invasione russa in Ucraina un mese prima, mentre per Taiwan ha previsto l’abbandono da parte Usa della propria ambiguità strategica. Il 72% era convinto infatti che Washington sarebbe intervenuto militarmente in caso di attacco e qualche mese dopo Biden ha dichiarato di esserne intenzionato.

Come riportato qui su Fanpage, nonostante le differenze, la situazione Ucraina è vissuta con una certa empatia dagli isolani, i quali percepiscono un pericolo maggiore rispetto al passato. Oggi meno della metà dei taiwanesi (37%) crede che ci sarà un intervento militare e il 56% ritiene che la guerra sia evitabile nella risoluzione delle dispute. Tuttavia, secondo la Taiwanese Public Opinion Foundation, sempre più cittadini sono convinti che – complice anche la disfatta afghana – in caso di un’aggressione militare cinese nei loro confronti, saranno i giapponesi a intervenire e non gli Usa. The Economist ha invece sottolineato come prima che scoppiasse il conflitto ucraino i taiwanesi disposti a combattere fossero appena il 40% mentre ora sono 7 su 10, quasi il doppio.

Biden e Xi si vedranno la prossima settimana in Indonesia, sarebbe il primo incontro da quasi due anni. Sicuramente tra i temi centrali ci saranno Taiwan, i diritti umani, l’Ucraina e l’impatto delle sanzioni. Lo scopo ufficiale è quello di costruire un terreno comune e riprendere le comunicazioni per scongiurare uno scontro diretto, anche se la sensazione, sempre più diffusa, è che ormai non si parli più di un “se” ma solo di un “quando” e di un “come”.

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